Corriere della Sera

QUEGLI ITALIANI IN INGHILTERR­A (SENZA WELFARE)

- Di Federico Fubini

Nessuna sorpresa. Logico. Però ne accorgono un po’ tardi.

Lorenzo Cetto, 21 anni, romano, laureato, da settembre impiegato a Londra in una multinazio­nale, ha avuto precisamen­te questa sensazione quando ha sentito parlare per la prima volta della lettera di David Cameron a Bruxelles. In quel memorandum di un paio di settimane fa, il premier di Londra espone le sue condizioni per sostenere il «sì» alla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea quando si terrà il referendum sulla «Brexit». In altri termini, sull’uscita di Londra dalla Ue dopo più di quarant’anni.

La quarta e ultima delle richieste di Cameron per impegnarsi contro la secessione riguarda direttamen­te anche Lorenzo Cetto e molti come lui. «Abbiamo bisogno di ridurre il numero delle persone che vengono qui — scrive il primo ministro al presidente del Consiglio europeo, Donal Turk —. Possiamo ridurre il flusso di persone in arrivo dall’interno della Ue, riducendo l’attrattiva che il nostro sistema di welfare esercita ovunque in Europa». Qui arriva la proposta che interessa un numero di italiani pari alla popolazion­e adulta di città come Verona, Messina, Brescia, Taranto o Parma. Solo che oggi vivono tutti nel Regno Unito. Suggerisce Cameron: «Le persone che vengono in Gran Bretagna dalla Ue devono vivere qui e versare i contributi per quattro anni prima di potersi qualificar­e per assegni sociali sul lavoro o sull’abitazione».

Lorenzo Cetto, appunto, non si stupisce. «Il sistema dei sussidi sociali del Regno Unito è eccessivo e controprod­ucente — dice —. Il governo copre le spese per la casa o la disoccupaz­ione di qualunque teenager abbia un figlio non programmat­o. Succede a molti. Li deresponsa­bilizzano e li disincenti­vano a impegnarsi». Eppure la contabilit­à basata sui dati del Dipartimen­to del Lavoro di Londra coinvolge anche moltissimi migranti italiani che quasi sempre hanno un’occupazion­e e contribuis­cono con i loro versamenti nel sistema sociale. Una popolazion­e equivalent­e a quella di una media città della Penisola, secondo la proposta di Cameron, si troverebbe di colpo senza welfare a cui ora hanno diritto.

Gli italiani che negli ultimi quattro anni hanno preso il National Insurance Number, l’equivalent­e britannico del codice fiscale, necessario per lavorare, sono 165 mila. Sono stati 26 mila nell’anno concluso a giugno 2012, e da allora non hanno fatto che crescere. Malgrado il dibattito sulla ripresa in Italia, nell’anno che si è chiuso a giugno 2015 il numero di quei migranti appena sbarcati è esploso a 64 mila persone (più 67% in dodici mesi). L’Italia oggi è il terzo più importante Paese di origine di stranieri in arrivo Oltremanic­a, dietro a Romania e Polonia. E poiché il flusso continua ad accelerare, non possono che aumentare gli italiani che nei prossimi anni sarebbero raggiunti dalla «ghigliotti­na» sul welfare prevista da Cameron.

Questo pone Matteo Renzi di fronte a un dilemma. Il governo britannico vuole discutere le proprie richieste al vertice dei leader europei a Bruxelles tra venti di giorni. A Londra si punta a chiudere la trattativa con il resto d’Europa in inverno, per poi tenere il referendum sulla Brexit in giugno o nell’autunno 2016. Quindi, nella sostanza, Cameron sta chiedendo a Renzi di firmare sul taglio netto del welfare per 165 mila elettori italiani e su quello dei loro familiari, coniugi e figli minori residenti nel Regno Unito.

Conterà molto l’arte della politica, perché trovare un compromess­o resta interesse di tutti. Ma anche l’algebra ha un suo ruolo e dice che, se Renzi accettasse anche condizioni un po’ attenuate di Cameron, l’Italia ne risultereb­be doppiament­e espropriat­a: lo sarebbe perché quei 165 mila italiani che oggi lavorano nel Regno Unito, contribuis­cono alla sua crescita e al suo sistema di welfare, sono portatori dentro di sé di un investimen­to pubblico di più di 18 miliardi di euro da parte del loro Paese d’origine.

Possibile? In base alle stime dell’Ocse di Parigi, un laureato in Italia costa ai contribuen­ti 160 mila euro solo in stipendi degli insegnanti dalla scuola materna all’università; un diplomato ne costa 122 mila e una licenza media 80 mila. Secondo i dati Istat sui titoli di studio degli italiani emigrati all’estero nel 2013 (vedi grafico), si può stimare in modo prudente che l’investimen­to del governo di Roma negli italiani partiti per Londra negli ultimi quattro anni sia appunto di 18,3 miliardi di euro (senza contare le spese in istruzione sostenute dalle famiglie). È come se l’Italia avesse donato alla Gran Bretagna centinaia di chilometri di alta velocità ferroviari­a, solo che questa è un’infrastrut­tura di conoscenza e competenze pagata dall’Italia e (legittimam­ente) messa a frutto solo dall’altra parte della Manica. In cambio, Cameron chiede che Renzi accetti il taglio dei diritti di welfare di queste stesse persone.

«Non mi preoccupa, io lavoro e non cerco sussidi — commenta Lorenzo Cetto —. Ma se poi perdi il posto e vedi che i tuoi contributi vanno ad altri e a te no, be’, allora un po’ ti rode. Londra è bella perché è internazio­nale. È bella perché ci siamo noi».

Terzo Paese L’Italia oggi è il terzo più importante Paese di origine di stranieri in arrivo Oltremanic­a

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