Il viaggio
La prima visita di papa Francesco in Africa: Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana le tappe del viaggio
Paolo VI fu il primo pontefice dell’era moderna a visitare l’Africa nel 1969. Giovanni Paolo II ha toccato ben 42 Paesi
Il Centrafrica vive da tre anni in un clima di guerra civile. Nel 2013 la Seleka, le milizie dal Nord e dall’Est del Paese (a maggioranza musulmana) hanno preso il potere nella capitale Bangui. Sotto il loro controllo si sono registrate violenze contro i cristiani
Alla fine del 2014 le «milizie cristiane» antiBalaka hanno cacciato Seleka e scatenato le rappresaglie. L’intervento francese ha «congelato» gli scontri
Il governo di transizione terminerà con le elezioni presidenziali previste per il 27 dicembre
I profughi e gli sfollati sono in grande maggioranza musulmani. La guerra ha portato comunità che prima convivevano nelle stesse aree a dividersi per linee religiose
Malgrado le risorse (diamanti, oro, legname) il Centrafrica è uno dei Paesi più poveri del mondo. Le aspettative di vita: 51 anni
« Guardi, adesso in città è tranquillo. Ci sono in giro i Caschi Blu, dicono diecimila, la gente è impegnata a pulire, a mettere tutto in ordine. Gli stessi musulmani desiderano la sua presenza. Speriamo che l’arrivo del Papa dia speranza, inviti a ragionare. Che la sua parola sia ascoltata e non ricominci tutto dopo la partenza». Il padre comboniano Gabriele Perobelli, di Verona, ha 69 anni e sta in Centrafrica da quaranta. Era parroco di Nostra Signora di Fatima nel «Km 5» di Bangui, il quartiere dove Francesco visiterà domani la moschea, quando il 28 maggio del 2014 accadde ciò che qui chiamano «il massacro di Fatima»: diciassette cristiani morti, una ventina di feriti. Che cosa è accaduto? «Era mercoledì pomeriggio, la vigilia dell’Ascensione. Dei musulmani armati sono arrivati d’improvviso, hanno sparato su tutti quelli che stavano fuori dalla chiesa e lanciato due bombe contro il portone, pensando che gli altri fossero dentro. Io ero nella mia stanza, altri nelle sale di catechismo, non abbiamo potuto fare niente. Gli attentatori invece hanno fatto quello che hanno voluto, non c’erano Caschi Blu a proteggerci, non c’era nessuno».
Com’è la situazione, oggi, al «Km 5» di Bangui?
«Non è cambiato nulla. C’è una linea rossa che separa il quartiere dei musulmani, la grande maggioranza, dalla parresse te dove vivono i cristiani. Chi la varca lo fa a suo rischio e pericolo. Può trovarsi fatto a pezzi, bruciato. I musulmani usano il coltello e anche i cristiani hanno imparato a fare la stessa cosa. Il parroco Dietro le milizie, c’è la lotta per potere e risorse I poveri, musulmani e cristiani, perdono sempre Ad ogni uccisione da una parte scatta la vendetta dall’altra. Si vive come prigionieri. Abbiamo visto scene terribili». Perché accade questo? «Gli interessi dietro gli scontri delle milizie sono i soliti. Il potere. E quindi il controllo dell’uranio, dell’oro, del petrolio, del legname. E la povera gente, musulmani e cristiani, è quella che ci perde sempre. All’inizio non era come adesso. Quando le milizie musulmane sono arrivate per conquistare il potere, dal Nord del Paese ma anche dal Ciad e dal Sudan, c’erano cristiani che si sono uniti a loro. Arrivati a Bangui, i musulmani hanno detto: adesso tocca a noi comandare. Lì è scattata la scintilla. E sono nate le milizie cristiane, che di cristiano hanno ben poco…». Prima com’era? «Cristiani e musulmani vivevano insieme, anche al “km 5”. Eravamo mescolati, nel quartiere. Si viveva pacificamente».
Il Papa rischia a venire a Bangui e andare nella moschea del km 5?
«La moschea sta in una zona ai margini del quartiere, distante da quella più pericolosa. Credo e spero di no. Penso cor-