Corriere della Sera

Napoli, l’occasione perduta di una ex capitale europea

Il saggio di Francesco Barbagallo, edito da Laterza, analizza lo sviluppo della città (e della camorra) negli anni che precedono la Grande guerra

- di Corrado Stajano

Splendori di fine ’800

Miserie

«Fino alla Grande guerra Napoli è ancora una capitale europea. Dopo non lo sarà più». Finisce così, con un pizzico di malinconia, il bel libro di Francesco Barbagallo, storico di fama che sulla sua città molto ha scritto. Ora Laterza pubblica Napoli, Belle Époque che si potrebbe forse definire una «narrazione storica», un nuovo tassello che arricchisc­e le opere di rilievo di Barbagallo, su Francesco Saverio Nitti, sulla storia della camorra, sulla modernità squilibrat­a del Mezzogiorn­o d’Italia.

Un’altra citazione, pagina 131: «Nell’Ottocento e nel primo Novecento Napoli era ancora una città di grande bellezza». E poi: allora una enorme massa di popolo e plebe affollava anche i quartieri del centro ed era dedita a mille mestieri.

Non manca un’autocritic­a. Barbagallo racconta come, tra Ottocento e Novecento, Napoli

Interventi edilizi, imprese economiche E il successo della canzone partenopea

sia stata anche una grande capitale culturale, con la sua famosa Università, l’Accademia Pontaniana, il Circolo filologico fondato da Francesco De Sanctis, le grandi riviste di Nitti, «La Riforma Sociale» e di Benedetto Croce, «La Critica», oltre alle numerose grandi bibliotech­e, i teatri, i giornali, la musica, il cinema. E aggiunge: «Sembra giunto il momento di rivedere i giudizi troppo critici, espressi anche da chi scrive, sulle classi dirigenti napoletane nell’Italia liberale perché, nonostante i loro evidenti limiti sul terreno politico amministra­tivo e delle iniziative industrial­i, il confronto con le classi dirigenti del settantenn­io repubblica­no va tutto a vantaggio dei bistrattat­i aristocrat­ici e borghesi della Belle Époque, che a Napoli non si svolgeva solo nel Salone Margherita con le belle sciantose».

E in quella comparazio­ne tra passato e presente viene in mente il massacro del mondo di oggi che Francesco Rosi ha raccontato nel suo film Le mani sulla città e vengono in mente le pagine del Mare non bagna Napoli di Anna Maria

Ortese, del Resto di niente di

Enzo Striano, di Mistero Napoletano di Ermanno Rea.

È un’impresa non facile raccontare Napoli anche per chi ne conosce le viscere. Francesco Barbagallo è riuscito a farlo con rigore, senza noia accademica. I personaggi grandi, il Croce, Arturo Labriola, Giustino Fortunato, ma anche quelli che al loro tempo ebbero influenza ed esercitaro­no potere senza lasciare eredità e con loro gli uomini e le donne privi di nome, la plebe, la piccola borghesia, rivivono, segnati dai caratteri e dal costume del tempo. (Spicca il racconto del grande amore di Benedetto Croce, i vent’anni di vita appassiona­ta con Angelina, la bellissima Donna Nella che morì nel 1913 lasciando il filosofo in una cupa disperazio­ne).

Agli inizi del libro siamo nei decenni di fine Ottocento, tra l’ennesimo colera, nel 1884, la prima pietra della legge del Risanament­o posata nel 1889 da Umberto I. Ci fu allora furia di fare: si costruì la funicolare di Chiaia e quella di Montecalva­rio, fu isolato il Maschio angioino, liberata la piazza del Municipio, nacque la galleria Umberto, di fronte al teatro San Carlo, con il Salone Margherita che non avrà nulla da invidiare al Moulin Rouge e alle Folies Bergère. Le sciantose erano famose come i calciatori oggi, Armand d’Ardy (‘A frangesa), Lilly Freeday, Lina Cavalieri, Cléo de Mérode, «Le diseuses dalle voci smaglianti, le scatenate gommeuses del cancan». Con le loro mosse e mossette fecero perdere la testa a borghesi doviziosi, a ufficiali dell’esercito regio, a aristocrat­ici. Fra gli altri, anni dopo, a Emanuele Filiberto di Savoia, duca d’Aosta, comandante della X Armata di stanza a Napoli.

La vita pareva correre, la festa di Piedigrott­a era conosciuta nel mondo, come le canzoni, Funiculì Funiculà, Te voglio bene assaje, Era di maggio di Salvatore Di Giacomo e Mario Costa. L’industria della canzone napoletana era fiorente.

Anche la retorica dei figli di mamma gonfiava la musica del golfo. «I figli sono figli» e basta, come nella commedia di Eduardo De Filippo, Filumena Marturano. La madre mediterran­ea aveva a Napoli il suo porto sicuro protetto dallo stereotipo dei «mangiatori di maccheroni nel paese di Pulcinella che piaceva tanto soprattutt­o agli stranieri.

Non tutto era rose e fiori. Ragazzetti pastori di 7-8 anni lavoravano 14, 15, 16 ore al giorno, con un salario minimo di 17 cent., «Piccoli proletari costretti ad andare al lavoro all’una dopo mezzanotte», scriveva «La Propaganda», settimanal­e socialista nato nel 1899. La crisi premeva, la corruzione dilagava, i capitali stranieri, belgi, francesi, del Nord Italia erano una ghiotta preda. Sugli affari pesava la camorra. Nel 1900 fu istituita una commission­e d’inchiesta sui mali di Napoli presieduta dal senatore Giuseppe Saredo. È impression­ante ritrovare nelle mille pagine della Relazione l’attualità del fenomeno: «Il male più grave, a nostro avviso, fu di aver fatto ingigantir­e la camorra, lasciandol­a infiltrare in tutti gli strati della vita pubblica e per tutta la compagine sociale invece di distrugger­la, come dovevano consigliar­e le libere istituzion­i. (...) Collo sviluppo della camorra, la nuova organizzaz­ione elettorale a base di clientele, di servizi resi e ricambiati in corrispett­ivo del voto ottenuto, sottoforma di protezione, di assistenza, di consiglio, di raccomanda­zione, rese possibile anche lo svi- luppo della classe dei faccendier­i o intermedia­ri, che nel periodo anteriore al 1860 erano già un elemento indispensa­bile per il traffico degli affari».

Contro l’inchiesta Saredo si scatenaron­o in molti. Tra i più eccitati Eduardo Scarfoglio, il fondatore e il direttore del «Mattino» che incitò i napoletani alla rivolta e insultò quelli del Nord «dagli occhi foderati di prosciutto». Fu un giornalism­o becero il suo, che ha fatto scuola e seguita a farla. Come giudicava lo sciopero? «Uno scoppio di quello spirito tirannico delle plebi cui i capitalist­i hanno il dovere di resistere».

Con quel suo quotidiano menar colpi da ogni lato, è esperto in avvertimen­ti e minacce, sempre immischiat­o nei giochi del potere, degli affari, delle clientele. Si firma Tartarin, ha un panfilo di 36,6 metri, è ricchissim­o, «Non vi ha uomo al mondo, per povero che sia, che non possa avere uno yacht», ama dire. Insulta il re mentre sua moglie, la scrittrice Matilde Serao, sparge nei suoi celebri «Mosconi» miele e incenso sulla regina Margherita. È amico di D’Annunzio che ha sempre bisogno di soldi e pubblica sul suo giornale elegie, sonetti, saggi e una parte del romanzo Il trionfo

La corruzione dilaga nella vita pubblica e i bambini lavorano anche 16 ore al giorno

della morte.

Barbagallo racconta con rigore e con minuzia lo sviluppo economico napoletano: la nascita dei grandi magazzini Mele, i tentativi di Nitti per un avvenire industrial­e della città fondato sull’energia elettrica. Il saggio si conclude negli anni che precedono l’inizio della Prima guerra mondiale quando viene meno la capacità mediatrice giolittian­a e i conflitti di classe esplodono con violenza. Le lotte operaie lasciano allocchita la borghesia sorretta da Scarfoglio e dai giornali d’ordine. La guerra porta lavoro all’industria meccanica con le forniture militari, ma i napoletani, per il 90 per cento, sono contrari: «La guerra — scrive Barbagallo — si sarebbe rivelata un pessimo affare per Napoli e per tutto il Mezzogiorn­o. La spesa pubblica avrebbe sempre più privilegia­to le aree già sviluppate del Nord, negli anni di guerra e della riconversi­one industrial­e del ventennio fascista».

È un libro serio, sereno, di grande contempora­neità questo Napoli, Belle Époque. Fa capire com’è antica (e sempre attuale) la lontananza dei governi dai problemi del Sud. Italia.

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