L’orgoglio di difendere una doppia identità
Lo scrittore tunisino Abdelaziz Belkhodia ha scritto una serie di romanzi per celebrare il primato di Cartagine nell’antichità e per ricordare ai connazionali da quale parte del mondo provengano. L’ultimo, Le retour de l’éléphant (Apollonia Editions), è stato scritto nel 2003, otto anni prima della Rivoluzione dei gelsomini. Anche negli anni più oscuri della dittatura padronale di Ben Ali, la cultura tunisina si considerava parte della koinè mediterranea. La testimonianza più solida e inoppugnabile è custodita proprio nel museo del Bardo, a Tunisi. I mosaici romani, tra i più belli del pianeta, sono custoditi nel palazzo in cui ha governato, più o meno formalmente fino al 1957, il Bey, cioè il luogotenente degli Ottomani. L’articolo 1 della nuova Costituzione tunisina proclama la nascita di uno Stato democratico, «la cui religione è l’Islam». In questa semplice frase si condensa la sfida più coraggiosa e affascinante nata dalla stagione delle Primavere arabe. La Tunisia guarda a Occidente, pur confermando la cultura e la tradizione musulmana. Un equilibrio forse complicato, un modello ancora pieno di incognite, ma decisamente vitale, nonostante i rovesci e le guerre nei Paesi vicini, dall’Egitto alla Siria. Non a caso proprio il Bardo è stato scelto come obiettivo strategico dai fondamentalisti islamici il 18 marzo scorso. I kalashnikov dei terroristi hanno ucciso 20 turisti provenienti da mezzo mondo, pronti a immergersi nella bellezza assoluta dei grandi mosaici: Perseo e Andromeda; Ulisse legato all’albero della nave per resistere alle sirene; Nettuno e le quattro stagioni. I tunisini hanno risposto con una grande manifestazione di piazza, stringendosi intorno al loro museo, il simbolo nello stesso tempo più antico e più moderno di un’identità originale. Il ponte Aquileia-Bardo è culturalmente interessante, politicamente necessario.
«Certo che ho paura. Ho paura al mattino, quando accendo la radio. Ho paura quando, se c’è la corrente, mi collego a Internet. Ho paura di tutte le mie giornate».
Eppure, ogni mattina, l’archeologo Maamoun Abdulkarim, direttore generale dei Musei e delle Antichità siriane, si alza, va nel suo ufficio di Damasco e comincia una conta difficile: quanti oggetti preziosi sono scomparsi? Dove si troveranno? Come fare per portare in salvo quelli non ancora trafugati da Daesh (il termine dispregiativo con il quale i musulmani definiscono Isis) o dai «mafiosi», come lui chiama i trafficanti di reperti antichi?
C’è anche un’altra domanda che qualche volta si affaccia subdola dietro l’orecchio: riuscirò a tornare a casa stasera? Sì, perché la memoria di Khaled al Asaad, il direttore del sito archeologico di Palmira decapitato dal sedicente Califfato islamico, in lui è vivissima.
Professore, i reperti del Bardo sono in mostra ad Aquileia. In fondo, è un messaggio di speranza. Che cos’è per lei oggi questa parola?
«È una parola indispensabile. Altrimenti non farei parte di questo mondo in bilico, fatto di circa 2.500 persone (tanti sono i funzionari preposti alla tutela delle antichità siriane) che rischiano la vita tutti i giorni. Sia perché l’integralismo islamico minaccia chiunque voglia elevarsi