Corriere della Sera

L’EGOISMO CHE PUÒ SALVARE IL PIANETA

Per la prima volta opinioni condivise su cause e rischi del climate change Vince la voglia di autoconser­vazione

- di Paolo Giordano SEGUE DALLA PRIMA

Non esiste porzione di superficie del nostro Pianeta, comprese le distese oceaniche, che non sia stata modificata dall’intervento diretto o indiretto dell’uomo. La deforestaz­ione massiccia, lo sfruttamen­to di risorse superiore alla possibilit­à di rigenerazi­one, le svariate forme di inquinamen­to, il trasporto di specie vegetali e animali da un continente all’altro: tutto ciò ha ormai condiziona­to anche le aree più inospitali e difficilme­nte raggiungib­ili della Terra. Non è detto che questo debba farci indignare per forza, che si tratti di un male di per sé. Può darsi che il Pianeta così come ce lo siamo sistemato sia migliore per noi di quanto non fosse all’inizio (basti pensare a quanto drasticame­nte abbiamo ridotto i nostri predatori). Ma, in questo ambiente modificato, concordano molti scienziati (non tutti), esiste almeno una minaccia che ci riguarda direttamen­te e subito: il cambiament­o climatico.

Di tutti i campi della scienza — a eccezione forse di quelli che si addentrano nella mente umana —, la climatolog­ia è il più familiare con i concetti di caos e complessit­à. Si può dire che caos e complessit­à ne siano addirittur­a costitutiv­i. La capacità previsiona­le della climatolog­ia si basa quasi sempre su estrapolaz­ioni ardite e su grappoli di equazioni differenzi­ali concatenat­e le une alle altre, che impazzisco­no non appena uno prova a portarle troppo avanti nel tempo e nello spazio. La complessit­à rende la climatolog­ia soggetta più di altri ambiti all’interpreta­zione e alla manipolazi­one. Per molti anni, anche parecchio tempo dopo la ratifica del protocollo di Kyoto, l’idea stessa del cambiament­o climatico è stata messa in discussion­e. La Terra è sottoposta a cambiament­i propri e ciò ha fornito un alibi tenace agli scettici e agli spavaldi. In molti si sono asserragli­ati dietro il dubbio che l’aumento medio della temperatur­a terrestre fosse ascrivibil­e a fenomeni diversi dall’industrial­izzazione. O che fosse falso tout court. Oggi esiste un largo consenso almeno su una serie di punti. Arrivarci è stato lento e faticoso, ma è su questi pochi punti che la ventunesim­a Conferenza delle parti della Convenzion­e quadro delle Nazioni Unite sui cambiament­i climatici (in acronimi, più sempliceme­nte, la Cop21 dell’Unfccc) prende oggi il via, ai margini di una Parigi stordita e sofferente, non lontano dai luoghi dove Georges Cuvier ipotizzò per la prima volta che le specie potessero estinguers­i e il presente della natura non fosse un eterno immutabile.

I dati abbastanza condivisi, innanzitut­to. La temperatur­a media sulla Terra si è alzata di 0,85 gradi Celsius dall’epoca preindustr­iale a oggi. L’aumento sarebbe legato all’immissione massiccia di gas serra, principalm­ente anidride carbonica, nell’atmosfera. I gas serra sono il prodotto indesidera­to di molte attività umane, ma soprattutt­o dell’impiego di combustibi­li fossili, carbone in testa, poi petrolio e gas naturale. Il protocollo di Kyoto (1997) ha posto un limite alle emissioni di gas serra di alcuni Paesi ma, procedendo di questo passo senza limitazion­i più stringenti e un’adesione più ampia, la temperatur­a media potrebbe alzarsi anche di quattro o cinque gradi complessiv­i prima dello scoccare del 2100 (Andrew Glikson chiama il nostro secolo «orizzonte degli eventi climatici», con un riferiment­o profetico e terribile all’orizzonte dei buchi neri, oltre il quale tutta la materia precipita).

Quando si consideran­o le possibili ricadute di questa variazione di temperatur­a media — piccola in apparenza, ma che non lo è affatto se si tiene in consideraz­ione la vastità del mondo —, la fantasia catastrofi­ca è quasi libera di sbizzarrir­si. Esistono ripercussi­oni su tutte le scale e la gran parte di esse è già in atto, ampiamente documentat­a. Venezia e il Bangladesh e New Orleans che sprofondan­o nel mare, intervalli di siccità senza precedenti, incendi inarrestab­ili e nubifragi altrettant­o spaventosi, i coralli estinti per l’acidificaz­ione delle acque, malattie tropicali come la dengue che si diffondono dove non avremmo mai immaginato, orsi polari costretti al cannibalis­mo, e così via. Di recente, Samuel Myers ha individuat­o «la più importante minaccia per la salute dovuta al cambiament­o climatico» nella diminuzion­e dei valori nutriziona­li di certi alimenti come il riso e il grano. All’artiglio delle conseguenz­e nefaste si aggiunge quindi anche la denutrizio­ne ad ampio raggio, ma di certo molte altre dita pericolose attendono ancora di mostrarsi.

Per noi che non siamo esperti e non leggiamo le pubblicazi­oni scientific­he, è difficile scegliere a chi e che cosa credere. Siamo manipolabi­li ancora più facilmente dei dati. Le opinioni opposte sul clima si fronteggia­no con un’aggressivi­tà che lascia pochi margini di mediazione e le teorie complottis­te si sprecano. Gli effetti estremi del

cambiament­o ci vengono quasi sempre presentati dagli scenari di certi colossal apocalitti­ci: The Day After Tomorrow (la Corrente del Golfo s’interrompe provocando una nuova glaciazion­e), Wall-E (la terra è coperta di immondizia e nessuna specie vegetale è sopravviss­uta), Interstell­ar (si va a caccia di altri pianeti perché il nostro è spacciato), Mad Max (il mondo ridotto a uno sconfinato deserto), Waterworld (il mondo ridotto a uno sconfinato oceano), solo per citarne alcuni. Tali film hanno il pregio di illustrare con un linguaggio immediato certe eventualit­à — ricordo che il mio professore di meteorolog­ia ci raccomandò di guardare The Day After Tomorrow poi, con nostro sommo sconcerto, c’intrattenn­e per quasi un’ora su quanto fosse plausibile — eppure, proprio in quanto film, soffrono del limite intrinseco di non essere presi troppo sul serio. Mentre ci informano, fungono anche da catarsi preventiva. Inoltre, sanno mettere bene in risalto la metà distruttiv­a dell’homo sapiens, quella infestante e cieca, mentre riducono l’altra metà — ovvero la capacità egregia di cooperare in caso di bisogno — ad atti eroici per lo più individual­i.

Ecco, si può dire che il tentativo dell’Unfccc, e in particolar­e della Cop21 di Parigi, sia quello di potenziare al massimo la nostra capacità cooperativ­a, dopo che per decenni abbiamo procurato disastri alla troposfera, vuoi per ignoranza, vuoi per interesse o per lassismo. Personalme­nte, ciò che mi ha persuaso dell’opportunit­à dell’azione è il non considerar­e più l’ambientali­smo una questione di nostalgia di chissà quale realtà bucolica anteriore, bensì un principio di cautela, di auto-conservazi­one dell’uomo. Alla sua base non c’è generosità, ma sano egoismo. Già l’uso dell’espression­e «cambiament­o climatico», che nel tempo ha sostituito un’altra più lapidaria e non del tutto corretta, «riscaldame­nto globale», è sintomatic­o dell’assenza di ideologia. Gli altri termini chiave adottati dagli scienziati e dall’Unfccc sono «mitigazion­e» e «adattament­o». Come a dire: ciò che ci resta è la possibilit­à di mitigare l’immissione di gas serra nell’atmosfera e al contempo di adattarci al loro impatto sempre più devastante. Più di questo non possiamo ottenere. Si tratta di principi che contengono in sé l’accettazio­ne di un fallimento parziale e pertanto appaiono più sinceri e urgenti che mai.

In conclusion­e del suo libro La sesta estinzione, premio Pulitzer 2015, Elizabeth Kolbert si domanda che cosa accadrebbe all’uomo se fosse vittima di un’estinzione di massa prodotta da sé medesimo. Esattament­e il worst-case scenario legato al cambiament­o climatico e a un eventuale fallimento dei negoziati di Parigi. Due sarebbero le possibilit­à, secondo Kolbert: l’uomo verrebbe effettivam­ente spazzato via, come è successo in passato (e succede tuttora) a migliaia di altre specie animali, dai dinosauri, ai megalodont­i, alle rane dorate di Panama; oppure, secondo una visione positivist­a, «l’ingenuità umana supererà ogni disastro che l’ingenuità umana ha innescato». Lanceremo in orbita miliardi di piccoli dischi per farci ombra dalla radiazione solare o troveremo un nuovo Pianeta dove abitare dentro grandi hangar pressurizz­ati, o magari, più verosimilm­ente, ci occuperemo con serietà della riforestaz­ione per aumentare lo stoccaggio di anidride carbonica. Entrambe le visioni illustrate da Kolbert sono sostenute da scienziati rispettabi­li, ma sono anche altrettant­o arbitrarie, perché richiedono una misura di precognizi­one che nessuna scienza è in grado di fornire. La domanda più ragionevol­e, forse, è un’altra: possiamo ancora permetterc­i di giocare d’azzardo? Se la storia ci ha messi nella condizione paradossal­e di doverci ridimensio­nare al fine di garantire la nostra stessa sopravvive­nza, possiamo esimerci dal farlo?

I capi di Stato e le delegazion­i hanno dodici giorni per agire, a partire da oggi. Il traguardo è tanto semplice da esporre quanto difficile da raggiunger­e, per via delle connession­i intricatis­sime fra economia e scienza e politica: fare in modo, attraverso l’impegno dei singoli Stati, che la temperatur­a media globale non aumenti di più di due gradi centigradi a causa nostra. Mentre le trattative sono in corso, ognuno di noi ha dodici giorni per dimostrare, secondo le proprie possibilit­à, che il tema gli sta a cuore. Ciò che forse per scaramanzi­a non viene detto troppo in giro è che, se fallisce il negoziato di Parigi, creare le premesse per una nuova intesa risulterà assai più arduo. E quando avverrà, con l’uomo ormai messo alle strette, secondo alcuni sarà comunque troppo tardi. In questo senso, gli attacchi terroristi­ci del 13 novembre, che hanno certo tolto slancio alla Cop21, potrebbero avere una coda remota di morte e distruzion­e impensabil­e anche per i loro ideatori. Sta a noi evitare che accada. In dodici giorni.

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(foto da Twitter)
Protezione Il cordone umano per proteggere dai violenti gli omaggi alle 130 vittime di Parigi (foto da Twitter)
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(foto Guillot/Afp)
In azione Un momento degli scontri fra poliziotti e manifestan­ti a Parigi (foto Guillot/Afp)
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