Corriere della Sera

ABBIAMO DUE CAPITALI MANCA LA NAZIONE

Storia e identità Per motivi diversi c’è diffidenza verso lo Stato A Roma pesa l’influenza del Vaticano e latita il rispetto per la legge e l’ordine: più di tutto conta il potere politico A Milano invece domina un’etica del fare che diventa molto critica

- SEGUE DALLA PRIMA di Ernesto Galli della Loggia

Capitale di nulla, Roma ha perciò visto da sempre la propria identità legata in modo indissolub­ile a una dimensione transnazio­nale, tendenzial­mente mondiale. Il rapporto di Roma con la Chiesa è così profondo, consustanz­iale, infatti, proprio perché esso ripete quello con l’impero dei Cesari: la Città e il Mondo. Nella Chiesa Roma vede il solo referente rimasto di quella tensione all’universali­tà che sente intimament­e sua.

Legata alla Santa Sede, e al tempo stesso luogo delle più celebri rovine d’Europa, Roma è rimasta nei secoli una sorta di città santuario, una meta di pellegrina­ggi sia religiosi che laici. Priva di una vera identità civica (e quindi di un possibile patriottis­mo civico), il suo popolo, nella sostanza, è stato nei secoli una plebe di servitori, legata a una funzione di servizio per il turismo confession­ale e culturale. All’altro estremo della scala, l’aristocraz­ia. Ma priva di una vera corte, tenuta lontana da veri compiti di governo, impossibil­itata a servire in un vero esercito, essa è sempre rimasta particolar­istica e feudale nell’animo, con frequenti tratti di rusticità che le venivano dal suo stretto rapporto con il contado. Che erano poi i medesimi tratti dominanti nella cerchia dei suoi amministra­tori, dei mercanti di campagna, degli alti dipendenti laici del Vaticano, il «generone». Chi voglia farsi di tutto questo un’idea più precisa non ha che da leggere i sonetti di Belli, il massimo testo di sociologia scritto sulla Città dei Papi. Nei quali non a caso, però, non compare mai una figura che possa dirsi quella di un vero borghese. La borghesia romana, infatti, l’hanno cominciata a formare dopo il 1870 gli impiegati piemontesi dello Stato italiano.

Il Vaticano, dunque, e poi lo Stato: insomma la politica, il potere. È stata costituita da questi materiali la vera cultura civica, se così può dirsi, della Roma contempora­nea. La quale, pur essendo sede della statualità italiana, non ha però mai avuto nulla in comune con quella cultura dello Stato che si esprime tipicament­e nella legge e nell’idea di un ordine. Per Roma lo Stato è solo la politica e il potere, questi solo contano. Per il resto lo Stato le è totalmente estraneo: da qui la dimensione di a-legalità che le è propria e che, come si capisce, è solo a un passo dall’illegalità.

Ma a ben vedere non è la stessa estraneità — sia pure di origine e natura assai diverse — che verso lo Stato nutre Milano? Qui è innanzi tutto la cultura del fare, dell’intraprend­ere, del commercio, che scava un invalicabi­le fossato tra la propria innata praticità e l’astrattezz­a procedural­e della macchina burocratic­o-statale, tra il suo quotidiano tirarsi su le maniche e l’apparente vuotaggine dell’attività politica, per tanta parte fatta necessaria­mente di parole. La «moralità» di cui Milano si vuole capitale, più che esibizione di una superiore onestà dei singoli (Dio sa quanto difficile da dimostrare), è innanzi tutto rivendicaz­ione della supremazia etica del fare. Per questo Milano piace e punta su di lei chi siede al governo del Paese desideroso di bruciare le tappe, insofferen­te delle procedure: chi vuole rappresent­are l’operosità modernizza­trice, chi come un vero imprendito­re desidera vedere tornare il conto dei propri voti in tempi brevi, chi la pensa come il luogo elettivo dove bisogna sfondare per conquistar­e l’Italia. Come Craxi trent’anni fa, come oggi Matteo Renzi: il quale infatti a Milano ci va di continuo, vi fa grandi progetti, le promette soldi in quantità, qui si spende per trovarle un sindaco. Mentre di Roma visibilmen­te gli interessa poco, preferendo lasciarla alle infami risse del Pd e al Papa con il suo Giubileo. Su Roma, in realtà, nella storia dell’Italia novecentes­ca, ha puntato solo Mussolini, che nelle sue allucinazi­oni di autodidatt­a romagnolo carduccian­o-nicciano vi vedeva il piedistall­o di un ruolo suo e dell’Italia, proiettato non a caso sulla scena mondiale (l’Italia essendosel­a già presa con la famigerata « marcia » ) . Dopo Mussolini c’è stato solo Andreotti. Ma in questo caso non già perché egli avesse di mira il mondo, bensì perché per Andreotti ciò che veramente importava, alla fine, non era né l’Italia né altro: era solo il Vaticano.

Dunque il Municipio e l’Urbe-Mondo. Il fare senza lo Stato da un lato, e dall’altro la politica senza legge e senza ordine. Milano e Roma: questo dualismo tuttavia non fa una nazione. E infatti per molti aspetti il problema storico dell’Italia, così come alcuni problemi più concreti dell’oggi, vengono per l’appunto dalla difficile, forse impossibil­e, integrazio­ne delle sue due più importanti città nella dimensione nazionale. Una dimensione che nello sfacelo attuale dell’Unione Europea, forse, però, non è molto saggio continuare anche idealmente a ignorare.

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