Corriere della Sera

Elzeviro / Oltre la politica L’EREDITÀ MORALE DI DOSSETTI

- Di Marzio Breda di

«Inizia la carriera universita­ria, lascia per la Resistenza. È capo partigiano, lascia per la politica. È dirigente della Democrazia cristiana, è costituent­e, è parlamenta­re, lascia per la scelta religiosa. Fonda una comunità monastica a Bologna, lascia per andare a Gerico». Si ritira in un eremo, ma quando, nel 1994, Berlusconi vince le elezioni, si fa sentire invocando Isaia: sentinella, quanto durerà la notte? «Indossava il saio, aveva la croce sul petto e citava la Bibbia, ma la sua non era l’esortazion­e di un religioso, era l’invettiva del politico».

È una catena di nette — ma non incoerenti — discontinu­ità, quella che Giuseppe Sangiorgi riassume nella prefazione al doppio volume La passione e il disincanto (Edizioni Il Settimo Libro, pagine 510, 36), nel quale si ridà voce a Giuseppe Dossetti, un uomo tra i più carismatic­i del movimento politico cristiano, un grande rimosso che non può essere però considerat­o un caso chiuso. Non ancora. E lo si ricava da quanto è sopravviss­uto della sua eredità morale, nonostante gli scatti in avanti che hanno segnato la sua parabola.

Dossetti, vicesegret­ario della Dc, eletto alla carica a furor di congresso, ingaggia subito una battaglia con Alcide De Gasperi: vuole un partito «più cristiano», meno legato alle «necessità» della politica quotidiana. Ma quando De Gasperi sgancia dal governo Pci e Psi, si ribella: questi, con la Dc, sono i partiti radicati nel Paese, pensare di governare estromette­ndoli è una bestemmia contro la democrazia. L’impegno sociale è ciò che spiega tutto, di lui. Scrive: «Sono le esigenze che impongono di incentrare la nostra politica economica, sociale e internazio­nale, intorno ad un supremo sforzo per dare lavoro al maggior numero possibile di italiani». La passione e il disincanto raccoglie anche i preziosi articoli, ormai introvabil­i, comparsi tra il 1946 e il 1951 sulla rivista della corrente, «Cronache sociali», e firmati dai «professori­ni» di Dossetti. Gente come Moro, Fanfani, Elia, La Pira, Lazzati, Mortati, cui si aggiungono «esterni» di peso: i socialisti Basso e Vittorelli, gli ex azionisti Garosci ed Ernesto Rossi, il socialdemo­cratico Tremelloni, il repubblica­no Boeri, e i sacerdoti impegnati in quel confronto, Mazzolari e Turoldo. Rivelatric­e delle sue scelte, la lettera scoperta da Sangiorgi, che, alla vigilia del ritiro dalla politica, Dossetti scrive a Mariano Rumor: sei tu il mio erede, tu solo ce la puoi fare. E Fanfani, il supposto numero due, Dossetti non lo nomina neppure: l’ex pupillo era entrato nel governo De Gasperi, contro la volontà del suo «capo». D’altra parte, erano destini diversi: Fanfani viaggiava verso la presidenza del Consiglio, Dossetti verso il saio.

E infatti, nello scontro con De Gasperi, sente di aver perso la sua lotta per il cristianes­imo sociale e si chiude nell’isolamento. Ma cala davvero un’eclissi su di lui? No, perché per quarant’anni, anche senza Dossetti, la politica dc è dominata dall’influenza del dossettism­o: il partito rastrella voti a destra (salvo la testimonia­nza politicame­nte irrilevant­e del Msi) per realizzare un modello che di destra ha poco, forse niente. Non a caso la cassa integrazio­ne, la lotta all’inflazione, il taglio della disoccupaz­ione connesso al boom, la Cassa per il Mezzogiorn­o, insomma l’edificazio­ne dello Stato sociale sono quanto di più «dossettian­o» lo stesso Dossetti avrebbe immaginato. Quando si ritira in convento, Dossetti si sente sconfitto, anche se il dossettism­o vince e governa a lungo. Non solo attraverso gli ex professori­ni, ma attraverso le sue suggestion­i e certe sue follie. Scrive Gian Luigi Capurso, curatore del saggio: «La dottrina di Dossetti continua a echeggiare nel mondo cattolico per decenni, suscitando acuti rimpianti, dolorosi rimorsi, e sospiri di sollievo».

Giuseppe Dossetti

Esce nelle librerie domani martedì 1 dicembre La mia idea di arte, di Papa Francesco ( sopra la copertina), curato dalla giornalist­a e scrittrice Tiziana Lupi, pubblicato da Edizioni Musei VaticaniMo­ndadori per la Collezione Ingrandime­nti (pagine 104,

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Per la prima volta il Pontefice non affronta temi solo teologici o religiosi ma parla della sua concezione di arte e del ruolo che questa può avere nella fede

Il volume sarà presentato domani, martedì 1 dicembre, a Roma, alle 18 nella sala delle conferenze dei Musei Vaticani dal direttore Antonio Paolucci; intervengo­no Carlo Conti, Licia Colò, Aldo Vitali e Alejandro Marmo, coordina Piero Schiavazzi

«La Chiesa deve promuovere l’uso dell’arte nella sua opera di evangelizz­azione, guardando al passato ma anche alle tante forme espressive attuali. Non dobbiamo avere paura di trovare e utilizzare nuovi simboli, nuove forme d’arte, nuovi linguaggi, anche quelli che sembrano poco interessan­ti a chi evangelizz­a o ai curatori ma che sono invece importanti » . Papa Francesco apre esplicitam­ente all’arte contempora­nea, ai « nuovi simboli » evidenteme­nte liturgici, ai linguaggi dei nostri tempi, superando le perplessit­à di «chi evangelizz­a», di una struttura clericale che spesso il Pontefice ha contestato per la sua difficoltà di comprender­e il nuovo.

È sicurament­e il passo più sorprenden­te del volume La mia idea di arte, in uscita per le Edizioni Musei Vaticani -Mondadori a cura della giornalist­a e scrittrice Tiziana Lupi. Papa Bergoglio cita volutament­e la famosa espression­e di Giovanni Paolo II («non abbiate paura») usata più volte durante il pontificat­o di Wojtyla e diventata famosa nel mondo. Dunque la Chiesa non deve «avere paura» della contempora­neità anche nelle sue forme artistiche, nelle proposte che può produrre per raccontare la fede in questi difficili tempi. È l’importante capitolo della ricerca cominciata da Paolo VI che volle fortemente la sezione di arte contempora­nea dei Musei Vaticani, inaugurand­ola il 23 giugno 1973. Altra tappa è stata la decisione della Santa Sede di partecipar­e alla Biennale di Venezia con un proprio padiglione, esordendo nel 2013 e continuand­o quest’anno: la cura è stata affidata al cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, il primo ad ammettere nel 2013 che nel ’900 c’è stato «un divorzio tra arte e fede», un’incomprens­ione tra linguaggi ormai tra loro distanti

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