«C’è in gioco il futuro del mondo» Ma l’accordo vincolante è lontano
Renzi loda l’impegno italiano nella riduzione delle emissioni: «No a un patto scritto sulla sabbia»
La giornata d’apertura della ventunesima conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico ha visto i 150 capi di Stato e di governo prendere la parola tre minuti ciascuno ( molti, per esempio Obama, hanno sforato) per esprimere più o meno lo stesso concetto: ora o mai più.
« Prenderemo in qualche giorno decisioni che avranno conseguenze per decenni, in gioco c’è l’avvenire del mondo » , ha detto il presidente francese François Hollande, che ha voluto collegare la minaccia del terrorismo a quella del cambiamento climatico.
«Sono le due grandi sfide che dobbiamo raccogliere — ha detto Hollande —, perché ai nostri figli dobbiamo lasciare in eredità non solo un mondo liberato dal terrore. Dobbiamo loro anche un Pianeta preservato dalle catastrofi». «Non potremo
dire alle generazioni future che non sapevamo — ha dichiarato il presidente della Commissione europea JeanClaude Juncker —. Dobbiamo e possiamo lasciare un mondo più sicuro». «Siamo l’ultima speranza per le generazioni future», ha ribadito il presidente americano Barack Obama, a capo del secondo Paese più inquinante al mondo dopo la Cina.
Nessuno che abbia detto di preferire un pianeta più sporco, caldo e pericoloso, ovviamente. Ma gli esercizi retorici dei leader, intrapresi con grande convinzione e sfoggio di toni epocali, si scontrano con tre problemi. Il Congresso degli Stati Uniti (a maggioranza repubblicana) non ratificherà mai l’accordo vincolante che molti si augurano — come del resto accadde con i protocolli di Kyoto — e che quindi è piuttosto improbabile. Le trattative puntano a usare l’immaginazione per trovare altre forme giuridiche, magari un meccanismo di controllo e revisione ogni cinque anni dei risultati ottenuti, con una sanzione soprattutto morale per gli inadempienti.
In secondo luogo, l’India ha deciso di farsi l’interprete dell’argomento che da decenni accompagna questo genere di riunioni e che è arrivato anche a Parigi: i Paesi emergenti non possono rinunciare alle energie fossili e frenare il loro sviluppo per riparare ai danni fatti in due secoli dai Paesi più avanzati; i contributi alla lotta contro il riscaldamento climatico devono essere differenziati, e i Paesi che adesso inquinano di più ma sono anche più poveri devono pagare meno degli altri.
Infine, i proclami dei leader pongono una terza questione. Mai come oggi la credibilità dei responsabili politici è messa in discussione in tutto il mondo, così come la loro capacità di influire realmente sulla realtà. Se l’11 dicembre la COP21 dovesse concludersi senza risultati concreti, il ricordo dei discorsi solenni ascoltati ieri diventerebbe davvero imbarazzante.
Il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi preferisce non nascondere le difficoltà: «Serve un accordo il più vincolante possibile, altrimenti rischia di essere scritto sulla sabbia». L’Italia si è presentata alla conferenza del Bourget con le carte in regola, dice Renzi: «I cittadini italiani devono essere orgogliosi del lavoro che stanno facendo le aziende, i politici e le associazioni italiane. Dal 1990 ad oggi abbiamo ridotto le emissioni del 23%, abbiamo un piano di investimenti per 4 miliardi di dollari da qui al 2020, siamo leader nella geotermia e fra i leader nel solare e nelle biomasse. Ma l’Europa vale solo il 10% delle emissioni globali. Noi stiamo facendo la nostra parte ma non tutti, a livello mondiale, si comportano allo stesso modo».
Il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, a margine della conferenza, ha indicato da chi vengono i pericoli di fallimento: «Il vero problema è l’India». Tra gli altri Paesi meno disposti a concessioni e a cambiare il proprio modello economico-industriale, l’Arabia saudita e il Venezuela (e in Europa la Polonia). Per vincere le loro resistenze, il ministro degli Esteri francese e presidente della COP21, Laurent Fabius, lavora affinché «nel 2020 i Paesi ricchi finanzino la transizione energetica dei Paesi poveri con 100 miliardi di dollari l’anno».
In serata sei Paesi — Francia, Germania, Canada, Cile, Etiopia e Messico — hanno lanciato un appello assieme alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale per fissare un prezzo universale del carbone, in modo da scoraggiarne l’utilizzo e orientare tutti i Paesi verso le energie rinnovabili.
L’obiettivo finale della COP21 è limitare a 2 gradi centigradi il riscaldamento climatico del Pianeta ( adesso siamo a + 0,85°), anche se alcuni Paesi come la Francia e l’Italia sarebbero disposti ad un più ambizioso 1,5°. I lavori sono appena cominciati. Come dice Laurent Fabius, «non tutto si risolverà a Parigi, ma niente potrà risolversi senza Parigi».