ANTIDOPING UNA BATTAGLIA DA CONDURRE CON SERIETÀ (E BUON SENSO)
Ventisei atleti, chi col talento del campione affermato, chi invece mai emerso e mai ormai emergerà, sono stati messi sotto accusa dalla Procura antidoping (organismo autonomo dal Coni, ma i suoi componenti sono nominati dalla Giunta Coni) per aver fatto i loro comodi e saltato i controlli. Una richiesta di pena, due anni di squalifica, da far venire i brividi per gente che ha vita professionale breve, a 30 anni si ragiona e si fanno i conti già per la «pensione». Atletica italiana azzerata nell’anno dell’Olimpiade di Rio. Ci si resta male, atleti che sono una bellezza, un incanto nella loro espressione tecnica ed estetica, finiscono sotto accusa non per doping, ma per aver bigiato-marinato fin troppe volte il controllo della verità. Non si fa. Ovvio che la Procura si mostri severa, perché il sospetto che abbiano fatto più i furbi che i pigri è forte. Meno ovvio che il presidente del Coni, Giovanni Malagò, il giovedì si affretti a dire, forse spinto da malinconico sentimento di tenerezza verso quei ragazzi: «Nessuno ha barato». Il giorno dopo, magari in seguito a una telefonata con Tammaro Maiello, il capo della Procura antidoping, ha corretto il tiro: «Ribadisco l’assoluta fiducia nell’autorevole operato dell’Ufficio di Procura antidoping che ha condotto l’indagine con serietà e rigore...». Crediamo che il Malagò atto secondo sia quello più credibile, perché se è vero che la Procura antidoping ne ha messi sotto inchiesta 26 è altrettanto vero che ne ha archiviati altri 39, loro sì per «mancata reperibilità». L’antidoping è affare serio, quando è condotto con professionalità. Bisogna però mettersi in testa che nello sport, svolto a livelli così esasperati, l’assistenza medica e farmacologica è necessaria. Con riso in bianco e bresaola non si reggono simili ritmi e soprattutto non si vince alcuna medaglia.