L’UMANITÀ QUOTIDIANA
NELLA POETICA DEI CARRACCI UN RACCONTO DI VITA E NATURA CHE ANIMA LA CULTURA EMILIANA
«Scriver la storia de’ Carracci, e de’ lorsegu aci, è quasi scriver la storia pittorica di tutta Italia da due secoli in qua». Così, con forza, l’abate Luigi Lanzi, il primo moderno storico dell’arte, sottolineava fin dal 1789 il ruolo centrale sostenuto dai Carracci nello sviluppo della pittura italiana del Seicento.
Con la loro «Accademia degli Incamminati» i Carracci sono i maestri di quasi tutti i pittori bolognesi del Seicento, molti dei quali si sposteranno a Roma con Annibale, ritornando poi a Bologna. Annibale e Ludovico (Agostino resta forse un po’ defilato) mettono a fuoco nella loro prima giovinezza bolognese una rivoluzione epocale che permette loro di superare in unattimol’ intellettualismo manierista, ormai vacuo e fine a se stesso.
È la rappresentazione «dello spettacolo mutevole delle circostanze di natura», visto «ad apertura non di libro, ma di finestra» come ebbe modo di dire con prosa folgorante ed evocativa Roberto Longhi nel 1934. Che vuol dire anche un occhio attento sul mondo, sulla realtà umana, sulla rustica concretezza della quotidianità che in fondo — come ha dimostrato Francesco Arcangeli nella memorabile mostra Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana, 1970 — è parte integrante della cultura emiliana fin dai tempi di Wiligelmo, ma capace di rinnovarsi fino a Morandi.
La riscoperta della natura, in tutte le sue accezioni gravide di conseguenze, dall’arte alla scienza, è la grande e complessa rivoluzione del Cinquecento europeo, che trasforma anche il senso del vedere degli artisti. I Carracci vi aderiscono attivamente, come testimoniano con la loro eccezionale freschezza narrativa gli affreschi del fregio di Palazzo Fava (1584), sede della mostra, che suggeriscono un dialogo unico con le opere esposte.
Per qualche anno Ludovico e soprattutto Annibale propongono un’acutissima riflessione sulla «quotidiana umanità» — quanta distanza dall’ortodossa dottrina di Bartolomeo Cesi! —, un universo piccolo che si snoda tra Macellerie, Mangiafagioli e Ragazzi che bevono. Scene che Longhi vedeva intrise della più vera tradizione naturalistica lombarda, simile a quella da cui si muove Caravaggio ma espressa con più profonda partecipazione umana. È il caso anche dell’immensa Elemosina di san Rocco eseprezzata, guita per Reggio Emilia ma oggi a Dresda, un tema sacro tradizionale trasformato da Annibale in una delle più intense rappresentazioni mai dipinte delle emozioni, delle speranze, delle sofferenze della povera gente, a cui dà asso- luta dignità di protagonista.
Subito dopo, nel 1595, Annibale si sposta a Roma al servizio del cardinal Odoardo Farnese. Qui crea il suo immortale capolavoro, la Galleria di Palazzo Farnese. Un’impresa faticosissima, mal pagata e poco ap- che procurò al povero Annibale la coscienza del proprio fallimento e la conseguenza di un gravissimo collasso nervoso che lo portò alla morte in pochi anni. Eppure oggi sappiamo che è uno dei massimi raggiungimenti della pittura di ogni tempo, espressione del più raffinato e profondo classicismo che la cultura italiana potesse produrre a quel tempo.
La scoperta dell’antico, di Michelangelo e soprattutto di Raffaello porta Annibale a ingaggiare un difficile confronto con quei modelli, apparentemente lontani dall’esperienza di vita e natura della sua giovinezza bolognese, ma che invece proprio da questa trae linfa vitale giungendo a un supremo punto di equilibrio. È questo il contesto in cui Domenichino e Francesco Albani completano la propria formazione, dando vita all’ideale classico che intride tanta parte del Seicento bolognese, a cui partecipa con impareggiabile forza anche Guido Reni.
Reni è il vero protagonista della scena cittadina nella prima metà del secolo. La complessità della sua arte non si spiega solo — come aveva sintetizzato Longhi — con «il desiderio, in lui acutissimo, di una bellezza antica, ma che racchiuda un’anima cristiana», come un Raffaello redivivo, dunque. Reni è questo, ma anche molto di più: è il cantore supremo in dipinti memorabili della forma ideale, perfetta ma — nella sua fase estrema — anche del suo disfacimento, della sorprendente e profetica dissoluzione di una materia pittorica che si disgrega in «puri fantasmi cromatici» (così ebbe a definirla Federico Zeri), che si fa ineguagliabile gesto, anima, volontà.
L’impresa estenuante degli affreschi a Palazzo Farnese procurò ad Annibale la coscienza del proprio fallimento e un grave collasso nervoso. Eppure proprio qui raggiunse un supremo equilibrio tra classicità e realtà