Un tesoro nato dalla crisi delle famiglie nobili del ‘600
Le difficoltà costrinsero le dinastie a vendere i quadri
Tornano lì dove è nato tutto. Dalla Roma capitolina e papalina, che li ha raccolti e poi custoditi per secoli finora, alla Bologna d’arte e pontificia che questi dipinti, anzi i loro autori, li ha allevati e poi protetti nel fermento pittorico del ‘500 e ‘600 italiani.
Trenta opere di Guido Reni, Annibale e Ludovico Carracci, Domenichino, Denys Calvaert, Sisto Badalocchio e Francesco Albani da ieri si possono ammirare a Palazzo Fava nell’ambito della mostra «Guido Reni e i Carracci. Un atteso ritorno» (fino al 13 marzo). Un’esposizione che nel salone nobile del Palazzo felsineo è sormontata da un ciclo di 18 affreschi con il mito di Giasone e Medea raffigurato dagli stessi Ludovico, Agostino e Annibale Carracci. Nessuna corona più bella per celebrare questo nostos, un cerchio che si apre e si chiude a tutti gli effetti.
L’esposizione — presentata da Fondazione Cassa di risparmio in Bologna, Genus Bononiae. Musei nella città e assessorato alla Cultura di Roma-Sovrintendenza Capitolina ai beni culturali — è stata curata da Sergio Guarino, curatore storico dell’arte alla Sovrintendenza capitolina ed è stata resa possibile in seguito a un restauro della Sala Bologna nei Musei Capitolini, che ha consentito lo spostamento delle tele.
«All’origine di tutto c’è il papa bolognese Benedetto XIV, Prospero Lambertini, che interviene su un fenomeno: la crisi economica che colpisce Roma a fine ‘600 costringe tante famiglie nobili a vendere i loro capolavori», racconta Guarino. I quadri che si possono ammirare a Bologna vengono infatti dalle collezioni di due famiglie, i Sacchetti e i Pio di Savoia, che Benedetto XIV donerà alla Città eterna. «Proprio
Le tele proposte vengono dalle collezioni di due famiglie, i Sacchetti e i Pio di Savoia, che poi Benedetto XIV regalerà alla Città eterna
Alessandro Sacchetti, fratello del cardinale Giulio, acquisterà gli ultimi quadri di Guido Reni dopo la sua morte a Bologna nel 1642. Sono le opere della seconda maniera del pittore bolognese, quella più essenziale, ma che al suo pubblico cittadino non piace, vogliono tutti il “Guido divino, tranquillizzante”». E proprio nel salone nobile si stagliano 10 di questi dipinti, tra cui «Anima beata», realizzato per Alessandro Sacchetti, totalmente distante dall’iconografia tradizionale: non è una donna, ma un adolescente in bilico verso la maturità che concentra la più pura ricerca della verità e dell’astrazione pittorica. La sala evidenzia il progressivo cambiamento di Guido Reni, dalla «Maddalena penitente», alla «Lucrezia» in cui il pugnale quasi
scompare nell’incarnato, al «Gesù fanciullo con San Giovannino», dove i capelli sono delineati con pochissimi tratti di pennello. «È un’occasione unica riportare la sala Bologna qui nella sua integrità — dice Fabio Roversi Monaco, presidente di Genus Bononiae — la mostra sotto il profilo culturale ha colmato un vuoto che c’era. Confidiamo nel ruolo che Bologna può avere nel far conoscere la nostra cultura anche a chi viene da altre città».
Nella sala attigua a Guido Reni riemergono due opere mai viste, recuperate per i Musei Capitolini: un tondo di Alessandro Tiarini, «San Sebastiano», esposto una sola volta a Reggio Emilia, e un tondo di Ludovico Carracci, «Madonna con il bambino», dal fascino silente, per questo dedicato forse ad ambienti privati.
Restando in famiglia, torna a Bologna anche «San Francesco in adorazione» di Annibale Carracci, già volato nel 2013 a Rio de Janeiro per la Giornata mondiale della gioventù e in cui si notano gli insegnamenti di Federico Barocci, mentre dirimpetto gli sorridono «Allegoria della Provvidenza», che il fratello Annibale realizzò in linea con il team giubilare della Misericordia, e una «Sacra famiglia» in cui ancora Annibale esercita tutta la sua maestria nel dipingere la levità del velo della Madonna.
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