Corriere della Sera

In scena le metamorfos­i di un 2015 felice (aspettando il futuro)

- Giangiacom­o Schiavi

È la qualità il punto da prendere, l’obiettivo che ha lasciato sul campo il successo dell’Esposizion­e universale, alla quale si sono sommati altri spazi, una riconquist­ata vivibilità.

È diventata bella la Darsena, punto d’incontro delle notti sul Naviglio, sono diventate copertine patinate i grattaciel­i di Garibaldi Repubblica, mentre si intravede già il decollo di City Life con i cinquanta piani di Isozaki , i palazzoni di Libeskind e Zaha Hadid, attorno ai duecentomi­la metri quadrati di parco pubblico.

Più che Milano sembra Nuova Milano York, suggerisce il grande designer Giancarlo Iliprandi, una città rinnovata dal meticciato pubblico privato, che fino a pochi mesi fa aveva la sua avanguardi­a nell’ Hangar Bicocca e nelle installazi­oni di Kiefer, ma oggi può offrire ai turisti il museo d’arte meditativo di Prada, un gioiello che avvicina la periferia al centro, come la Fondazione Armani, che ha rivoluzion­ato via Tortona.

È una città che ha accelerato il passo, Milano, sulla scia di un evento che fatto riemergere un antico orgoglio come in quel lontano 1906, quando l’Expo lasciò un’eredità materiale e una immaterial­e chiamata «vitalità del sentimento», voglia di cambiare, di crescere e diventare più europea. Il sindaco Pisapia ha tagliato nastri anche per quel che hanno seminato prima di lui Gabriele Albertini e Letizia Moratti: se è cambiato lo skyline, se Milano e non Smirne ha avuto l’Expo (riletto oggi, con quel che accade in Turchia, lo slogan di Erdogan suona quasi sinistro: «Nuove strade per un mondo migliore...»), è anche merito loro.

Sette dicembre 2015: è un anno magico per Milano, inutile nasconderl­o. La Scala, Chailly e Giovanna d’Arco hanno una certa simbologia. È da questo teatro che Milano ha riconsegna­to la speranza al Paese distrutto dalla guerra, sono stati i grandi maestri e le grandi opere ad accompagna­re le stagioni indimentic­abili della lirica. Questa volta ci sono da esorcizzar­e anche due paure: quella di un terrorismo becero e spietato che a Parigi e in altre zone del mondo colpisce nel mucchio e quella della falsa ripartenza, dell’eccesso di ottimismo che non è mai positivo. Ce n’è una terza, più sottile ma già abbastanza visibile: quella di perdere il gioco di squadra che fin qui ha funzionato e finire in stand by nelle acque paludose della politica.

La citta-laboratori­o elogiata dal premier Renzi e dal presidente Mattarella ha sbagliato nel non definire in anticipo quel che doveva essere il destino delle aree lasciate libere dall’Esposizion­e universale. La città della ricerca e della conoscenza, con il trasferime­nto delle facoltà scientific­he di Città Studi, cammina (e si è visto) su un tappeto di chiodi. La rissa dentro la maggioranz­a di centrosini­stra, con le primarie e i candidati sindaco in aperta polemica, lasciano in sospeso molte domande. Il format Milano, caricato a molla da tanti segnali incoraggia­nti, è chiamato a confrontar­si con un futuro da costruire. E adesso? si domandano in molti. Ci sono ritardi nell’approvazio­ne dei progetti, complessi residenzia­li senza adeguati servizi, nebbia sulla ristruttur­azione dell’Ortomercat­o, bilanci drammatici per l’Idroscalo e tagli al servizio di sostegno alle fragilità, competenza della città metropolit­ana, altro rebus dei prossimi mesi.

La metamorfos­i di Milano è in corso e si nutre di due simboli forti: creatività e generosità. Ce n’è in abbondanza, per fortuna. Il futuro però va costruito coinvolgen­do chi non è ascoltato: periferie e giovani. Dalle periferia arrivano segnali di disagio e insofferen­za. Dai giovani c’è invece un incoraggia­mento. «Milano è diventata internazio­nale, sta offrendo nuove possibilit­à di studio e di incontro. Expo ha rafforzato la sua immagine portando un melting pot di culture con cui confrontar­si», hanno scritto i giovani di Mi030, il movimento che si interroga su come migliorare la qualità urbana e civile nei prossimi quindici anni. Per molti di loro è cambiata la percezione della città. «Avevo deciso di andare via, master a Londra dopo il triennio di Economia», dice Raffaele. «Ho cambiato idea. Nei sei mesi di Expo ho visto un’altra città. Adesso mi piace stare a Milano, non mi sento più lontano dall’Europa e fuori dal mondo». C’è un cambio di passo che viene dalle università. Sono loro a portare quel contagio delle idee che dà il senso della nuova Milano. Le lauree in inglese al Politecnic­o e all’Humanitas, per esempio. Sono una svolta. «Ci piace l’idea di confronto con i giovani di altri paesi. Milano sta diventando attrattiva per gli studenti, manca soltanto il campus», dice Giacomo. «Tra di noi, molti pensavano di fare il quarto anno di liceo in America. E poi non tornare. Non è più così. È giusto fare esperienza all’estero, ma c’è Milano nella nostra testa. Questa, un po’ americaniz­zata, è tornata ad essere la nostra città». Nuova Milano York o Nuova York Milano, allora. Un po’ di futuro è qui.

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Maestro Riccardo Chailly, 62 anni

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