Lancio il mio appello: fermare queste destre
È stato un anno terribile Ma non possiamo consegnarci all’odio e al disfattismo
La Francia che aspira al peggio ha vinto la prima manche. Domenica prossima non deve vincere la seconda. Un partito esecrabile diretto da una cricca nepotista, ricco di pregiudicati e di nostalgici dello spirito fazioso dovrebbe forse assoggettare parecchie regioni del nostro Paese? Fra qualche giorno, una parte del territorio dovrebbe forse appartenere ai discendenti di Vichy, ai nostalgici dell’Algeria francese e dell’Oas, ai nemici di sempre della Repubblica e della democrazia? Dovremmo vivere al fianco di questa pestilenza, respirare giorno dopo giorno l’irrespirabile? Accettare come una fatalità la volgarità soddisfatta e ignara che renderebbe il nostro Paese oggetto di scherno e di pietà da parte dell’Europa? E rassegnarci alla rivincita postuma di Maurras, di Brasillach, di Pétain, degli uomini che hanno voluto uccidere il generale de Gaulle, di quell’eterno partito costituito da chi odia la Francia e continua a volerla sempre più piccola, meno sfolgorante, meno gloriosa?
E accetteremmo, senza tentare nulla, che una, due, forse tre o quattro delle regioni più emblematiche del genio francese siano presiedute da donne e uomini che, ancora oggi, ogni volta che la loro patria è impegnata in un conflitto, ogni volta che invia piloti o forze speciali a rischiare la vita su teatri d’azione esterni, si schiera sempre, come per caso, con il nemico: ieri Gheddafi o i distruttori del Mali; oggi Bashar al Assad; domani, Dio non voglia, Putin e le sue provocazioni? No, troppo grande sarebbe la vergogna, la disgrazia, il disordine. Siamo ancora in tempo, oggi, se appena l’insorgere delle coscienze avrà la meglio sui piccoli calcoli, per arginare la marea crescente.
Qualche settimana fa, davanti a un’altra forma di minaccia diretta contro il nostro vivere insieme, abbiamo dimostrato di avere uno spirito di resistenza nato dal profondo e che ha stupito il mondo. Certo, i fatti non sono paragonabili. E non è possibile mettere sullo stesso piano il nichilismo sterminatore degli jihadisti che uccidono come si disboscano le foreste e la squallida passione di apprendisti stregoni che, rovesciando le forme della Repubblica contro il suo spirito e la sua storia, progettano di revocare le nostre tradizioni di ospitalità, la libertà di creazione dei nostri artisti e quei diritti delle donne così faticosamente conquistati. Ma ci sono qui due fenomeni che si corrispondono. C’è un odio giovane e un odio stantio che, apparentemente agli antipodi, si guardano allo specchio, si rafforzano e si coniugano al fine di sconvolgere la nostra forma di contratto sociale e di far insorgere i francesi gli uni contro gli altri.
Gli attentati di gennaio, poi quelli di novembre, hanno provocato un soprassalto di unità nazionale che ci riporta alle ore più ricche della nostra storia. Ebbene, al pesante voto di domenica deve corrispondere una stessa reazione di unità e di rifiuto. All’odio espresso nelle urne, occorre replicare con uguale vigore che all’odio espresso nel sangue. E le stesse persone che, a milioni, hanno detto no al terrorismo e alle bandiere nere, ora devono dire no a coloro che alterano lo spirito delle leggi, giocano con il tricolore e lo usurpano, agli unici dirigenti politici che, sia detto en passant, l’11 gennaio scorso, all’indomani dei massacri di Charlie Hebdo e dell’Hyper Kasher, rifiutarono di unirsi all’ondata umana che scese nelle piazze per esprimere il proprio rifiuto della barbarie e il proprio amore per la Francia.
Concretamente, questo significa tre cose. Chi ama la Francia, uomini e donne di buona volontà che difendono lo spirito di tolleranza e dei tre motivi del motto repubblicano, devono essere molto più numerosi, domenica prossima, ad andare a votare. Sinistra e destra, in tale circostanza e provvisoriamente mescolati, dovranno avere, votando nelle regioni minacciate, una sola e unica preoccupazione: impedire a un manipolo di avventurieri, nemici del nostro sistema di sovranità e di cittadinanza, di accedere alle più alte funzioni locali. E i loro candidati devono, fin da oggi, esplorare e adottare le uniche due o tre formule (desistenza, fusione delle liste, fronte repubblicano, poco importa...) che consentiranno di sbarrare la strada a coloro che, due secoli dopo Voltaire, un secolo e mezzo dopo la proclamazione della Repubblica, credono di nuovo sia giunta la loro ora.
Non c’è via d’uscita. Nessun ragionamento, fosse pure dottrinalmente giusto (la fusione significa confusione... il Front National si nutre della scomparsa del dibattito e del disaccordo politico...) conterà davanti all’urgenza (fare di tutto affinché il clan Le Pen non prenda in ostaggio, per esempio, i due poli, nord e sud, di una Francia scombussolata...). La responsabilità storica della sconfitta annunciata ricadrebbe, negli apparati come sul terreno, sugli uomini e le donne di scarsa coscienza che avessero sostenuto le loro ambizioni o passioni personali contro l’interesse generale.
La Francia, al termine del terribile anno che ha appena attraversato, merita qualcosa di più del disfattismo. Sarebbe penoso se, dopo essere coraggiosamente insorta contro il nemico esterno, dovesse cedere a un nemico interno che, anch’esso, a suo modo, sogna di vederla in ginocchio.