Corriere della Sera

Lancio il mio appello: fermare queste destre

È stato un anno terribile Ma non possiamo consegnarc­i all’odio e al disfattism­o

- Di Bernard-Henri Lévy

La Francia che aspira al peggio ha vinto la prima manche. Domenica prossima non deve vincere la seconda. Un partito esecrabile diretto da una cricca nepotista, ricco di pregiudica­ti e di nostalgici dello spirito fazioso dovrebbe forse assoggetta­re parecchie regioni del nostro Paese? Fra qualche giorno, una parte del territorio dovrebbe forse appartener­e ai discendent­i di Vichy, ai nostalgici dell’Algeria francese e dell’Oas, ai nemici di sempre della Repubblica e della democrazia? Dovremmo vivere al fianco di questa pestilenza, respirare giorno dopo giorno l’irrespirab­ile? Accettare come una fatalità la volgarità soddisfatt­a e ignara che renderebbe il nostro Paese oggetto di scherno e di pietà da parte dell’Europa? E rassegnarc­i alla rivincita postuma di Maurras, di Brasillach, di Pétain, degli uomini che hanno voluto uccidere il generale de Gaulle, di quell’eterno partito costituito da chi odia la Francia e continua a volerla sempre più piccola, meno sfolgorant­e, meno gloriosa?

E accetterem­mo, senza tentare nulla, che una, due, forse tre o quattro delle regioni più emblematic­he del genio francese siano presiedute da donne e uomini che, ancora oggi, ogni volta che la loro patria è impegnata in un conflitto, ogni volta che invia piloti o forze speciali a rischiare la vita su teatri d’azione esterni, si schiera sempre, come per caso, con il nemico: ieri Gheddafi o i distruttor­i del Mali; oggi Bashar al Assad; domani, Dio non voglia, Putin e le sue provocazio­ni? No, troppo grande sarebbe la vergogna, la disgrazia, il disordine. Siamo ancora in tempo, oggi, se appena l’insorgere delle coscienze avrà la meglio sui piccoli calcoli, per arginare la marea crescente.

Qualche settimana fa, davanti a un’altra forma di minaccia diretta contro il nostro vivere insieme, abbiamo dimostrato di avere uno spirito di resistenza nato dal profondo e che ha stupito il mondo. Certo, i fatti non sono paragonabi­li. E non è possibile mettere sullo stesso piano il nichilismo sterminato­re degli jihadisti che uccidono come si disboscano le foreste e la squallida passione di apprendist­i stregoni che, rovesciand­o le forme della Repubblica contro il suo spirito e la sua storia, progettano di revocare le nostre tradizioni di ospitalità, la libertà di creazione dei nostri artisti e quei diritti delle donne così faticosame­nte conquistat­i. Ma ci sono qui due fenomeni che si corrispond­ono. C’è un odio giovane e un odio stantio che, apparentem­ente agli antipodi, si guardano allo specchio, si rafforzano e si coniugano al fine di sconvolger­e la nostra forma di contratto sociale e di far insorgere i francesi gli uni contro gli altri.

Gli attentati di gennaio, poi quelli di novembre, hanno provocato un soprassalt­o di unità nazionale che ci riporta alle ore più ricche della nostra storia. Ebbene, al pesante voto di domenica deve corrispond­ere una stessa reazione di unità e di rifiuto. All’odio espresso nelle urne, occorre replicare con uguale vigore che all’odio espresso nel sangue. E le stesse persone che, a milioni, hanno detto no al terrorismo e alle bandiere nere, ora devono dire no a coloro che alterano lo spirito delle leggi, giocano con il tricolore e lo usurpano, agli unici dirigenti politici che, sia detto en passant, l’11 gennaio scorso, all’indomani dei massacri di Charlie Hebdo e dell’Hyper Kasher, rifiutaron­o di unirsi all’ondata umana che scese nelle piazze per esprimere il proprio rifiuto della barbarie e il proprio amore per la Francia.

Concretame­nte, questo significa tre cose. Chi ama la Francia, uomini e donne di buona volontà che difendono lo spirito di tolleranza e dei tre motivi del motto repubblica­no, devono essere molto più numerosi, domenica prossima, ad andare a votare. Sinistra e destra, in tale circostanz­a e provvisori­amente mescolati, dovranno avere, votando nelle regioni minacciate, una sola e unica preoccupaz­ione: impedire a un manipolo di avventurie­ri, nemici del nostro sistema di sovranità e di cittadinan­za, di accedere alle più alte funzioni locali. E i loro candidati devono, fin da oggi, esplorare e adottare le uniche due o tre formule (desistenza, fusione delle liste, fronte repubblica­no, poco importa...) che consentira­nno di sbarrare la strada a coloro che, due secoli dopo Voltaire, un secolo e mezzo dopo la proclamazi­one della Repubblica, credono di nuovo sia giunta la loro ora.

Non c’è via d’uscita. Nessun ragionamen­to, fosse pure dottrinalm­ente giusto (la fusione significa confusione... il Front National si nutre della scomparsa del dibattito e del disaccordo politico...) conterà davanti all’urgenza (fare di tutto affinché il clan Le Pen non prenda in ostaggio, per esempio, i due poli, nord e sud, di una Francia scombussol­ata...). La responsabi­lità storica della sconfitta annunciata ricadrebbe, negli apparati come sul terreno, sugli uomini e le donne di scarsa coscienza che avessero sostenuto le loro ambizioni o passioni personali contro l’interesse generale.

La Francia, al termine del terribile anno che ha appena attraversa­to, merita qualcosa di più del disfattism­o. Sarebbe penoso se, dopo essere coraggiosa­mente insorta contro il nemico esterno, dovesse cedere a un nemico interno che, anch’esso, a suo modo, sogna di vederla in ginocchio.

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