Cultura, tecnologia, made in Italy La nostra Bellezza vale 240 miliardi
Sentimento e concretezza Quanto conta il «saper fare» nell’economia della nazione? Molto, dati alla mano. Uno degli aspetti di un tesoro in gran parte nascosto che il Corriere esplorerà con inchieste, storie, eventi
Fu nel 1845 che lo storico dell’arte John Ruskin cominciò a provare per Venezia un sentimento molto simile all’amore: un intreccio di curiosità, ansia e intermittente appagamento. Pur frastornato dalla sua bellezza, fu proprio questo senso del possesso a spingere lo studioso londinese verso un’altra (e più alta) forma di conquista: volle capire. Volle comprendere da dove nascesse realmente quello splendore. Cominciò a studiarne palazzi, chiese e calli, metro per metro (nel 1952 scrisse al padre: «Vorrei ridisegnare tutta san Marco, pietra dopo pietra»). Ne ricostruì la storia, l’architettura e la natura scientifica, analizzò persino le maree e il loro influsso sulla morfologia urbana. E fu da questa anatomia sentimentale che nacque uno dei libri più affascinanti mai scritti sulla città: Le pietre di Venezia, uscito nel 1851. Ecco, nel progetto «Il Bello dell’Italia» che parte oggi (in collaborazione con Fondazione Italia Patria della Bellezza), la linea guida sarà ispirata proprio al lavoro ruskiniano: un’indagine multiforme sul bello italiano, senza retorica né lodi astratte al fin troppo decantato «patrimonio culturale» ma con lo sguardo lucido della tangibilità. Attraverso inchieste e visual data, approfondimenti speciali, un canale web dedicato e una serie di eventi dal vivo, da qui a tutto il 2016, l’esplorazione seguirà i criteri del rigore e della concretezza.
Le cifre del bello
Concretezza artistica, scientifica, tecnologica e anche economica: il rapporto Economia della
bellezza, redatto da Prometeia che qui anticipiamo in esclusiva (e che verrà presentato giovedì 10 dicembre in un evento pubblico al Teatro Dal Verme di Milano) ci dice una cosa: il contributo della bellezza al Pil nazionale è di 240 miliardi di euro e incide all’incirca per il 16,5%. A patto, però, spiegano i curatori, di allargare il campo e di includere nel concetto di bellezza anche «attori» inconsueti come le imprese artigiane di qualità, le opere di alta tecnologia e innovazione o il turismo. Queste non sono contaminazioni dannose alla purezza estetica di una scultura di Michelangelo o alla perfezione della Reggia di Caserta: sono parte del nostro bagaglio genetico. E fanno da retroterra fertile (come aveva capito il londinese Ruskin) alla natura della nostra arte.
Per esempio, i beni di consumo di qualità, definizione che ingloba quei prodotti per i quali gli acquirenti internazionali sono disposti a spendere il 20 per cento in più, portano qualcosa come 44 miliardi di euro di valore aggiunto. C’è bellezza nella moda, nel design o nella produzione di auto? «C’è bellezza nella valorizzazione delle capacità tecnologiche, scientifiche e artigianali», precisa Andrea Cancellato, appena eletto presidente di Federculture e da tempo ai vertici della Triennale di Milano (con il Museo del Design e la lunga ricerca nel settore, la Triennale è un esempio perfetto di congiunzione tra la cultura e l’esperienza di alto artigianato di numerose aziende di casa nostra). Forse è da qui che si potrebbe partire per rivitalizzare il sistema cardiocircolatorio della bellezza italiana: il «guscio», lo sappiamo, è meraviglioso, ma la lezione di Ruskin ci insegna che è bene andare nelle arterie di un Paese, un po’ come fece William Carlos Williams quando scrisse Nelle vene dell’America: conoscere che cosa c’è dietro. Valorizzare il gesto che, magari in un’azienda di provincia, conduce a una poltrona ben fatta o a un violino perfetto. O scoprire che dietro un brand di alta moda c’è una comunità di sarte eccellenti che non si limitano a «recuperare le tradizioni», come elenca in modo astratto una certa retorica, ma inventa un nuovo metodo di intrecciare fili di seta. Nell’inserto in uscita con il «Corriere» il 10 dicembre, tra le tante storie di bellezza italiana raccolte, c’è quella (a firma di Enrica Roddolo) di Vitale Barberis Canonico, che nel Biellese produce tessuti pregiati da oltre 350 anni. Come si resiste alle guerre, alle rivoluzioni ma anche, soprattutto, alla seduzione del fast fashion? Francesco Barberis Canonico ha risposto non con un generico «grazie alla qualità», ma così: «Con un progetto comune».
Il bagaglio genetico del Paese
Ecco, fare della bellezza un progetto comune, identitario, fondato su quello che più ci contraddistingue nel mondo. È l’obiettivo sotteso a Il Bello dell’Italia ma è anche uno dei mantra di Maurizio di Robilant, fondatore di Italia Patria della Bellezza. «Un progetto che deve essere necessariamente inclusivo. Non deve separare il meraviglioso contenitore (il Colosseo, la costiera amalfitana, eccetera) dal gesto produttivo, creativo. Sì: materiale». Perché il rapporto Prometeia ci dice anche che nella terra delle rovine più belle al mondo, dai beni ad alta innovazione (produzione associata a imprese che brevettano nei settori intermedi e d’investimento) derivano ulteriori 32 e rotti miliardi di valore aggiunto. E qui soffriamo, come mostra il grafico, la concorrenza di altri Paesi che nella tecnologia e nella ricerca scientifica investono molto di più, la Germania in testa.
Ma attenzione. Come avvertivano Bruno Arpaia e Pietro Greco in un bel libro uscito per Guanda nel 2013, Con la cultura si mangia, «non basta allestire grandi centri scientifici accanto a industrie dinamiche e limitarsi a ottimizzare il know how. Non funziona così. Il passaggio dall’economia industriale classica all’economia della conoscenza si realizza...là dove c’è un ambiente culturale e umano “complessivamente creativo”:..in un Paese dove c’è una forte vocazione all’innovazione». Ecco il tesoro sul quale siamo seduti (e che, è vero, spesso mortifichiamo con politiche inadatte): le rovine. È quell’insieme di conoscenza scientifica e visionarietà che portò, a metà del ‘400, alla realizzazione della piazza di Pienza, un intreccio tra il realismo dell’architetto Bernardo Rossellino e il progetto umano e culturale di un papa molto raffinato, Enea Silvio Piccolomini, Pio II.
Bellezza identitaria è anche questo: non limitarsi a inseguire le cifre produttive della Germania, ma tener conto della nostra natura, unica. Se è vero che il rapporto di Prometeia ci dice che da noi l’industria creativa (quei settori basati su professionalità ad alto contenuto culturale e creativo, dal design all’arte all’IT) dà un valore aggiunto che è circa la metà di quello sviluppato dal Regno Unito, questo non vuol dire che bisogna trascurare il design (dove siamo competitivi) e metterci a investire solo nei software. Se davvero si vuole innescare quella rivoluzione basata sulla cultura che negli ultimi due-tre anni in tanti auspicano quale scatto di reni postcrisi, non bisogna «lasciarsi dominare dal presente, dal contingente», come ammonisce il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nell’introduzione al Rapporto di Federculture 2015.
Lo «sguardo» sul domani
Nell’appena ristrutturato Museo del Duomo di Firenze (un lungo racconto per sculture della Fabbriceria della Cattedrale), accanto al modello della Cupola di Santa Maria del Fiore, una delle più importanti opere d’architettura mai realizzate in Europa, si legge uno scritto commovente del suo autore, Filippo Brunelleschi. Consapevole della enorme difficoltà tecnica nel tenere in aria quella pesantissima copertura della crociera del Duomo, l’architetto annota: «...ma ricordandomi che questi è tempio sacrale a Dio e alla Vergine/ mi confido che, facendosi in memoria sua, non mancherà d’infondere il sapere...». In un rinnovamento culturale, sociale e economico che intenda avere al suo centro la bellezza, sarebbe un errore trascurare la spina dorsale della nostra storia artistica più rilevante, un intreccio di competenze tecniche, fiducia (all’epoca alimentata, sì, anche dalla fede religiosa), relativa stabilità politica, studio attento del passato (per progettare la cupola, Brunelleschi trascorse anni nell’osservazione minuziosa del Pantheon di Roma), nessuna paura del fallimento (l’architetto fiorentino potè ideare il suo capolavoro perché momentaneamente «disoccupato»), coraggio da parte dei committenti (ce ne volle tanto all’epoca per accettare l’idea di un cupolone che potesse sorreggersi in cielo senza armatura).
È anche questo ordito di splendore e coraggio, apparentemente inesplicabile, che affascina gli stranieri. Prometeia dice che il brand Italia è al primo posto nella classifica Country Brand Index sulla percezione di un Paese per turismo ed eredità culturale. Il grafico sottolinea come da musei e turismo si sviluppano in Italia ulteriori 39 miliardi di valore aggiunto. Tanti? No, pochi se pensiamo che potrebbero aggiungersene molti di più se imparassimo a destagionalizzare i flussi turistici come fanno Spagna e Francia, a migliorare le infrastrutture (solo il 17% degli alberghi ha almeno 4 stelle) e a comunicare meglio, anche sui social network.
Come fare? Si potrebbe cominciare dal metodo Ruskin: andare a fondo, collegare la meraviglia dei tramonti alla bellezza delle maglie metalliche di un ponte, allargare lo sguardo. Quello sguardo, come dice Mattarella «verso il domani», che deve essere oggi la nostra cultura.
Un concetto identitario che deve essere allargato includendo più elementi, dalla valorizzazione dei monumenti alla ricerca