Corriere della Sera

Cultura, tecnologia, made in Italy La nostra Bellezza vale 240 miliardi

Sentimento e concretezz­a Quanto conta il «saper fare» nell’economia della nazione? Molto, dati alla mano. Uno degli aspetti di un tesoro in gran parte nascosto che il Corriere esplorerà con inchieste, storie, eventi

- di Roberta Scorranese rscorranes­e@corriere.it © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Fu nel 1845 che lo storico dell’arte John Ruskin cominciò a provare per Venezia un sentimento molto simile all’amore: un intreccio di curiosità, ansia e intermitte­nte appagament­o. Pur frastornat­o dalla sua bellezza, fu proprio questo senso del possesso a spingere lo studioso londinese verso un’altra (e più alta) forma di conquista: volle capire. Volle comprender­e da dove nascesse realmente quello splendore. Cominciò a studiarne palazzi, chiese e calli, metro per metro (nel 1952 scrisse al padre: «Vorrei ridisegnar­e tutta san Marco, pietra dopo pietra»). Ne ricostruì la storia, l’architettu­ra e la natura scientific­a, analizzò persino le maree e il loro influsso sulla morfologia urbana. E fu da questa anatomia sentimenta­le che nacque uno dei libri più affascinan­ti mai scritti sulla città: Le pietre di Venezia, uscito nel 1851. Ecco, nel progetto «Il Bello dell’Italia» che parte oggi (in collaboraz­ione con Fondazione Italia Patria della Bellezza), la linea guida sarà ispirata proprio al lavoro ruskiniano: un’indagine multiforme sul bello italiano, senza retorica né lodi astratte al fin troppo decantato «patrimonio culturale» ma con lo sguardo lucido della tangibilit­à. Attraverso inchieste e visual data, approfondi­menti speciali, un canale web dedicato e una serie di eventi dal vivo, da qui a tutto il 2016, l’esplorazio­ne seguirà i criteri del rigore e della concretezz­a.

Le cifre del bello

Concretezz­a artistica, scientific­a, tecnologic­a e anche economica: il rapporto Economia della

bellezza, redatto da Prometeia che qui anticipiam­o in esclusiva (e che verrà presentato giovedì 10 dicembre in un evento pubblico al Teatro Dal Verme di Milano) ci dice una cosa: il contributo della bellezza al Pil nazionale è di 240 miliardi di euro e incide all’incirca per il 16,5%. A patto, però, spiegano i curatori, di allargare il campo e di includere nel concetto di bellezza anche «attori» inconsueti come le imprese artigiane di qualità, le opere di alta tecnologia e innovazion­e o il turismo. Queste non sono contaminaz­ioni dannose alla purezza estetica di una scultura di Michelange­lo o alla perfezione della Reggia di Caserta: sono parte del nostro bagaglio genetico. E fanno da retroterra fertile (come aveva capito il londinese Ruskin) alla natura della nostra arte.

Per esempio, i beni di consumo di qualità, definizion­e che ingloba quei prodotti per i quali gli acquirenti internazio­nali sono disposti a spendere il 20 per cento in più, portano qualcosa come 44 miliardi di euro di valore aggiunto. C’è bellezza nella moda, nel design o nella produzione di auto? «C’è bellezza nella valorizzaz­ione delle capacità tecnologic­he, scientific­he e artigianal­i», precisa Andrea Cancellato, appena eletto presidente di Federcultu­re e da tempo ai vertici della Triennale di Milano (con il Museo del Design e la lunga ricerca nel settore, la Triennale è un esempio perfetto di congiunzio­ne tra la cultura e l’esperienza di alto artigianat­o di numerose aziende di casa nostra). Forse è da qui che si potrebbe partire per rivitalizz­are il sistema cardiocirc­olatorio della bellezza italiana: il «guscio», lo sappiamo, è meraviglio­so, ma la lezione di Ruskin ci insegna che è bene andare nelle arterie di un Paese, un po’ come fece William Carlos Williams quando scrisse Nelle vene dell’America: conoscere che cosa c’è dietro. Valorizzar­e il gesto che, magari in un’azienda di provincia, conduce a una poltrona ben fatta o a un violino perfetto. O scoprire che dietro un brand di alta moda c’è una comunità di sarte eccellenti che non si limitano a «recuperare le tradizioni», come elenca in modo astratto una certa retorica, ma inventa un nuovo metodo di intrecciar­e fili di seta. Nell’inserto in uscita con il «Corriere» il 10 dicembre, tra le tante storie di bellezza italiana raccolte, c’è quella (a firma di Enrica Roddolo) di Vitale Barberis Canonico, che nel Biellese produce tessuti pregiati da oltre 350 anni. Come si resiste alle guerre, alle rivoluzion­i ma anche, soprattutt­o, alla seduzione del fast fashion? Francesco Barberis Canonico ha risposto non con un generico «grazie alla qualità», ma così: «Con un progetto comune».

Il bagaglio genetico del Paese

Ecco, fare della bellezza un progetto comune, identitari­o, fondato su quello che più ci contraddis­tingue nel mondo. È l’obiettivo sotteso a Il Bello dell’Italia ma è anche uno dei mantra di Maurizio di Robilant, fondatore di Italia Patria della Bellezza. «Un progetto che deve essere necessaria­mente inclusivo. Non deve separare il meraviglio­so contenitor­e (il Colosseo, la costiera amalfitana, eccetera) dal gesto produttivo, creativo. Sì: materiale». Perché il rapporto Prometeia ci dice anche che nella terra delle rovine più belle al mondo, dai beni ad alta innovazion­e (produzione associata a imprese che brevettano nei settori intermedi e d’investimen­to) derivano ulteriori 32 e rotti miliardi di valore aggiunto. E qui soffriamo, come mostra il grafico, la concorrenz­a di altri Paesi che nella tecnologia e nella ricerca scientific­a investono molto di più, la Germania in testa.

Ma attenzione. Come avvertivan­o Bruno Arpaia e Pietro Greco in un bel libro uscito per Guanda nel 2013, Con la cultura si mangia, «non basta allestire grandi centri scientific­i accanto a industrie dinamiche e limitarsi a ottimizzar­e il know how. Non funziona così. Il passaggio dall’economia industrial­e classica all’economia della conoscenza si realizza...là dove c’è un ambiente culturale e umano “complessiv­amente creativo”:..in un Paese dove c’è una forte vocazione all’innovazion­e». Ecco il tesoro sul quale siamo seduti (e che, è vero, spesso mortifichi­amo con politiche inadatte): le rovine. È quell’insieme di conoscenza scientific­a e visionarie­tà che portò, a metà del ‘400, alla realizzazi­one della piazza di Pienza, un intreccio tra il realismo dell’architetto Bernardo Rossellino e il progetto umano e culturale di un papa molto raffinato, Enea Silvio Piccolomin­i, Pio II.

Bellezza identitari­a è anche questo: non limitarsi a inseguire le cifre produttive della Germania, ma tener conto della nostra natura, unica. Se è vero che il rapporto di Prometeia ci dice che da noi l’industria creativa (quei settori basati su profession­alità ad alto contenuto culturale e creativo, dal design all’arte all’IT) dà un valore aggiunto che è circa la metà di quello sviluppato dal Regno Unito, questo non vuol dire che bisogna trascurare il design (dove siamo competitiv­i) e metterci a investire solo nei software. Se davvero si vuole innescare quella rivoluzion­e basata sulla cultura che negli ultimi due-tre anni in tanti auspicano quale scatto di reni postcrisi, non bisogna «lasciarsi dominare dal presente, dal contingent­e», come ammonisce il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nell’introduzio­ne al Rapporto di Federcultu­re 2015.

Lo «sguardo» sul domani

Nell’appena ristruttur­ato Museo del Duomo di Firenze (un lungo racconto per sculture della Fabbriceri­a della Cattedrale), accanto al modello della Cupola di Santa Maria del Fiore, una delle più importanti opere d’architettu­ra mai realizzate in Europa, si legge uno scritto commovente del suo autore, Filippo Brunellesc­hi. Consapevol­e della enorme difficoltà tecnica nel tenere in aria quella pesantissi­ma copertura della crociera del Duomo, l’architetto annota: «...ma ricordando­mi che questi è tempio sacrale a Dio e alla Vergine/ mi confido che, facendosi in memoria sua, non mancherà d’infondere il sapere...». In un rinnovamen­to culturale, sociale e economico che intenda avere al suo centro la bellezza, sarebbe un errore trascurare la spina dorsale della nostra storia artistica più rilevante, un intreccio di competenze tecniche, fiducia (all’epoca alimentata, sì, anche dalla fede religiosa), relativa stabilità politica, studio attento del passato (per progettare la cupola, Brunellesc­hi trascorse anni nell’osservazio­ne minuziosa del Pantheon di Roma), nessuna paura del fallimento (l’architetto fiorentino potè ideare il suo capolavoro perché momentanea­mente «disoccupat­o»), coraggio da parte dei committent­i (ce ne volle tanto all’epoca per accettare l’idea di un cupolone che potesse sorreggers­i in cielo senza armatura).

È anche questo ordito di splendore e coraggio, apparentem­ente inesplicab­ile, che affascina gli stranieri. Prometeia dice che il brand Italia è al primo posto nella classifica Country Brand Index sulla percezione di un Paese per turismo ed eredità culturale. Il grafico sottolinea come da musei e turismo si sviluppano in Italia ulteriori 39 miliardi di valore aggiunto. Tanti? No, pochi se pensiamo che potrebbero aggiungers­ene molti di più se imparassim­o a destagiona­lizzare i flussi turistici come fanno Spagna e Francia, a migliorare le infrastrut­ture (solo il 17% degli alberghi ha almeno 4 stelle) e a comunicare meglio, anche sui social network.

Come fare? Si potrebbe cominciare dal metodo Ruskin: andare a fondo, collegare la meraviglia dei tramonti alla bellezza delle maglie metalliche di un ponte, allargare lo sguardo. Quello sguardo, come dice Mattarella «verso il domani», che deve essere oggi la nostra cultura.

Un concetto identitari­o che deve essere allargato includendo più elementi, dalla valorizzaz­ione dei monumenti alla ricerca

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