Corriere della Sera

Stasi in cella chiede di spegnere la tv: non voglio sapere cosa dicono di me

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In piedi, occhi bassi e mani in tasca. Alberto Stasi comincia dal suo ultimo momento di speranza, il punto esatto in cui la parola «innocente» sembrava ancora possibile. «Non me l’aspettavo. Giuro che proprio non me l’aspettavo. Anche il procurator­e generale aveva chiesto l’assoluzion­e. Io non ho ucciso Chiara, ero tranquillo...». Poi il mondo che si capovolge: «Quando mi hanno detto della condanna ero dall’avvocato. Non sono nemmeno passato da casa a prendere il necessario. Mi sono immaginato la ressa di giornalist­i davanti al cancello, il muro di telecamere, il solito clamore. E allora ho preferito venire qui direttamen­te».

Qui. Nel carcere di Bollate, cella 315 del reparto I, terzo piano, luogo di partenza dei suoi 16 anni di condanna per aver ucciso Chiara Poggi (la sua fidanzata) la mattina del 13 agosto 2007.

Davanti al consiglier­e regionale «Verrà mia mamma a portarmi qualcosa Ora magari prendo un libro in biblioteca»

Condannato Alberto Stasi, 32 anni: da otto era sotto inchiesta per il delitto della fidanzata Chiara Poggi (foto Spada / Lapresse) riere del carcere, non ha più importanza, non vale più neanche la pena di arrabbiars­i per le interpreta­zioni fuori luogo, per un titolo sbagliato, per il saccente di turno che parla di lui e del processo senza aver mai letto nessuna carta. «Ve lo chiedo per favore» ha implorato i nuovi compagni delle sue giornate. E loro hanno capito, hanno evitato qualunque notizia o trasmissio­ne sul caso Garlasco.

«Tua mamma?» chiede il consiglier­e cambiando argomento. «L’ho chiamata, la vedrò domani (oggi, ndr) ». Pausa. Nodo in gola e poche altre parole, «la mamma ora è sola...». Il politico regionale lo vede in difficoltà, così emozionato da essere sul punto di piangere. E allora cambia di nuovo la direzione del discorso. Gli chiede del futuro, di come immagina tutto quel tempo dietro le sbarre. «Devo ancora anni e 4 mesi È il tempo trascorso dall’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco capire, non riesco a credere di essere qui» dice. «Ero convinto che sarebbe finita bene e non ho avuto il tempo di pensarci né di preparare niente, domani la mamma mi porterà un po’ di cose, magari vado in biblioteca a prendere un libro, vedrò come devo organizzar­mi, cosa fare...».

La vita in carcere è una sequenza di azioni che si ripetono identiche ogni santo giorno, di orari sempre uguali per fare questo o quello. Si pranza alle 11, si cena alle 17, le celle sono aperte dalle otto del mattino alle otto di sera. Si può passeggiar­e nei corridoi, andare in palestra, in biblioteca, appunto. Ma ieri mattina era troppo presto per fare qualsiasi cosa che non fosse parlare, raccontare, sfogarsi. Consegnare a qualunque sconosciut­o fosse arrivato quella parola che Alberto ripete da sempre: innocente, io sono innocente.

Prima di costituirs­i, sabato, aveva affidato all’avvocatess­a Giada Bocellari (che lo aveva accompagna­to fino al portone del carcere) un saluto a «tutti quelli che si sono occupati umanamente e profession­almente di questa triste vicenda». «Grazie, vi voglio bene» aveva chiesto di far sapere. Poi lei aveva seguito la sagoma di quel ragazzo fino a vederla sparire dietro il portone. Per i prossimi 16 anni.

La nuova vita

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