Corriere della Sera

Tolstoj, le stagioni della gioia

- Di Pietro Citati

Nella fine del dicembre del 1858, Tolstoj cominciò a scrivere La felicità familiare, il più bello dei suoi racconti e romanzi brevi. Presto si immerse profondame­nte nella stesura, sebbene dubitasse della qualità del testo. Quando ricevette le bozze, il 3 maggio 1859, scrisse: «Che merda vergognosa! Che macchia! Adesso sono sepolto come scrittore e come uomo. Ho corretto le bozze con un disgusto che mi è difficile descrivere. In tutta questa storia, non una parola viva… È una sofferenza vederla, leggerla, ricordarla». Confesso di non comprender­e questa sfiducia, che diventa angoscia. La felicità familiare è un libro bellissimo, freddo e luminoso come la luna, che irradia le pagine, i lillà e i salici.

L’inizio è triste. La protagonis­ta, Mària Aleksàndro­vna, Maša, ricorda il tetro, malinconic­o inverno, trascorso nella vecchia casa di Pokròvskoj­e. La stagione era fredda e ventosa: i mucchi di neve si ammassavan­o più alti delle finestre, che erano quasi sempre ghiacciate e offuscate. La madre di Maša era morta nell’autunvano no. Per quasi tutto l’inverno non usci mai a piedi o in slitta. Raro era il caso che qualcuno venisse a trovarli; e, anche se qualcuno veniva, non apportava svago o gioia. Tutti avevano le facce afflitte, tutti parlavano a bassa voce, come per timore di svegliare qualcosa. In casa si sentiva ancora la morte. Maša non usciva mai, non apriva il pianoforte, non prendeva un libro in mano. Nell’intimo, una voce le diceva: «A che scopo? A che scopo far qualcosa, quando così, inutilment­e, si va perdendo il mio tempo migliore?». Aveva l’impression­e che tutta la sua vita fosse destinata a trascorrer­e in questa solitudine remota, in questa malinconia senza scampo.

La natura salvava da questa tristezza e angoscia, pervadendo di sé tutti gli animi e tutte le cose. Quando giunse la primavera, da ogni parte saliva intenso il profumo dei fiori: l’abbondante guazza intrideva l’erba: un usignolo trillava poco lontano, in un cespuglio di lillà, e poi si azzittiva, udendo le voci umane; il cielo stellato si abbassava sulle persone.

Tutto era luce. La luna piena pendeva sulla casa, e la campagna era irrorata dall’argento della guazza e della luce lunare. Il largo viottolo tra le aiuole, illuminato e gelido, si perdeva nella nebbia e nella lontananza. Tra gli alberi traspariva luminoso il tetto della serra. Alcuni dei cespugli di lillà erano in piena luce, fino ai rami. Tutti i fiori, inumiditi dalla guazza, risulta- distinti l’uno dall’altro. I viali non parevano alberi e strade, ma diafani, ondeggiant­i edifici. Fuori dall’ombra della casa usciva, stupendame­nte espansa, la cima di un pioppo.

Sergej Michàjlovi­c era il tutore della famiglia: la madre di Maša aveva desiderato che egli sposasse la figlia. Non era sottile, pallido e afflitto come l’uomo ideale di Maša: non più giovanissi­mo, aveva uno sguardo sincero e lieto, che guardava fisso negli occhi; aveva modi semplici, una faccia onesta dai tratti intelligen­ti, un sorriso consapevol­e come quello di un bambino. Anche per i domestici, era una persona di casa. Corteggiav­a Maša. Si rivolgeva a lei scherzosam­ente: «Non sarebbe per voi una disgrazia se legaste la vostra vita a un uomo anziano, finito, come me, che desidera soltanto star seduto?». La trattava come un giovane, caro compagno: le faceva una quantità di domande, esigendo la più intima sincerità; le dava consigli. Quando sorrideva, tutto il viso gli si irradiava di gioia. Non era un vecchio zio che le dava insegnamen­ti

I personaggi Maša si sorprende di quello che prova per Sergej. I due si sposano ma la fase della fusione totale non regge all’esperienza della città

ma un essere suo pari che aveva per lei amore e timore. Anche Maša aveva amore e timore: ogni suo pensiero era un pensiero di lui; ogni suo sentimento un sentimento di lui.

Maša suonava il piano. A volte lui si sedeva alle sue spalle, cosicché le riusciva invisibile: ma dappertutt­o — nella mezza oscurità della stanza e in lei stessa — Maša sentiva la sua presenza che le riecheggia­va nel cuore. Poi si voltava a guardarlo. La testa di lui prendeva risalto sullo sfondo luminescen­te della notte. Sedeva sorreggend­o il capo con le mani, e teneva fissi su di lei gli occhi splendenti. Sorrideva. Anche lei sorrideva, o addirittur­a rideva: avrebbe voluto che tutto si fermasse, tanto era esultante per quella cosa indefinibi­le che stava avvenendo. Tutto era luce: la luce piena della luna pendeva sulla casa. Oppure Maša suonava a lungo per lui, che andava su e giù per la stanza bisbiglian­do qualcosa. Era una sua abitudine, questa di bisbigliar­e tra sé. Se lei gli domandava cosa stesse bisbiglian­do, ogni volta, dopo aver riflettuto un istante, lui rispondeva esattament­e dicendo ciò che bisbigliav­a: di solito versi, o alle volte assurdità puerili. La musica costituiva il loro più caro ed elevato piacere, toccando nuove corde del cuore e quasi rivelando daccapo l’uno all’altro.

Un giorno, Maša guardava Sergej Michàjlovi­c negli occhi. D’improvviso, qualcosa di strano le accadde: da principio cessò di distinguer­e gli

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