Il profilo
oggetti intorno a lei, il viso di lui gli scomparve d’innanzi, e soltanto gli occhi le splendevano proprio di contro al suo sguardo; ebbe l’impressione che quegli occhi fossero in lei, tutto le si annebbiò, non vide più nulla, e fu costretta a sbattere le ciglia per strapparsi a quel senso di piacere e di terrore. Un altro giorno il suo cuore, d’improvviso, si mise a battere più forte: la mano, presa da un tremito, si strinse alla mano di lui; un gran calore la invase, i suoi occhi, nella penombra, cercarono il suo sguardo; e tutt’a un tratto sentì che questa paura era amore, un amore possente che non aveva mai conosciuto. Sentì che era tutta di lui, e che era felice del potere che egli aveva nel suo cuore.
Si sposarono. Il giorno del matrimonio egli avanzava adagio, in silenzio, e sul suo viso, che Maša osservava ogni tanto, stava dipinto quello stesso sentimento grave, tra di cordoglio e di gioia, che era diffuso sia nella natura sia nel suo cuore. Poi cominciarono i mesi di quiete solitaria vita in campagna. Quando parlavano, le loro voci squillavano e restavano sospese su di loro nell’immobilità dell’aria, come se fossero soli ad esistere nel bel mezzo del mondo. I sentimenti, le emozioni e la felicità di quei due mesi sarebbero bastati per tutta la vita. Era un tempo uniforme e felice. C’era un egoistico sentimento d’amore fra loro due, un desiderio di ciascuno di essere amato dall’altro, una perpetua, immotivata allegria, una dimenticanza di tutto il mondo esterno. Tutto si ripeteva. Ogni sabato, regolarmente, si lavavano i pianciti di casa e si battevano i tappeti: ogni lunedì veniva celebrato il Te Deum. Le mieiux est l’ennemi du bien, diceva Maša, anticipando una frase di Guerra e pace. Quando scoppiava il temporale, arrivava una lettera, o semplicemente si svegliava, un senso di terrore la invadeva: il terrore era che qualcosa mutasse.
Dopo qualche mese, Maša fu assalita da un desiderio di movimento. Voleva affrontare nuove emozioni. C’erano in lei un eccesso di forze, che non trovava sfogo in quella vita così tranquilla. Si sentiva felice: ma la faceva soffrire il fatto che questa felicità non le costasse nessun sforzo, nessun sacrificio, mentre tanta capacità di sforzo e di sacrificio le urgeva dentro. Pensava: «C’è qualcosa d’altro, per cui soltanto ora ci sono in me le forze». Qualcosa d’altro era necessario: la lotta. Tutto le appariva tedioso e vuoto, mentre aveva voglia di vivere e di muoversi: non sopportava che il tempo le scorresse attraverso. «Io voglio procedere innanzi, diceva, e ogni giorno, ogni ora voglio del nuovo».
Andarono a Pietroburgo. Appena giunti in città, si ridestò in lei un nuovo mondo felice: tanta gioia le si affollò intorno, tanti nuovi interessi le sorsero innanzi, che d’un tratto, anche se inconsciamente, rinnegò il passato. «Eccola qui, la vera vita! E cos’altro verrà, ancora?», diceva tra sé. Sentirsi oggetto dell’attenzione del bel mondo, le faceva piacere e accontentava il suo amor proprio. Finché una sera, facendo precipitare l’edificio della «felicità familiare», Maša litigò con Sergej. Ebbe la sensazione che un vero e proprio abisso si aprisse tra lei e il marito.
Da quel giorno avvenne un mutamento radicale nelle loro vite e nei loro rapporti. Non stavano più così bene da soli, come una volta. Non ci fu più lo sguardo profondo di Sergej, che un tempo la turbava e le dava gioia. Avveniva di rado, addirittura, che si vedessero. La vita di società si impadronì completamente di lei. In questo modo passarono tre anni. Marito e moglie tornarono nella vecchia casa di Pokrovskoje: essa riprese vita; ma non riprese vita ciò che vi aveva vissuto in quei primi mesi di felicità matrimoniale. Erano soli l’uno di fronte all’altro. Tutto — le stanze, il pianoforte, la natura — era, in apparenza, come una volta, ma ogni cosa aveva subito un tremendo, funereo mutamento. Nell’intimo di Maša ogni cosa era sconnessa, manchevole, e c’era un continuo bisogno di qualche altra cosa.
Un giorno, Maša posò gli sguardi sul marito, e sentì una nuova leggerezza in se stessa. Ebbe limpida e calma la visione che il sentimento di quel tempo era passato senza possibilità di ritorno come il tempo stesso, e che tornare indietro non solo era impossibile, ma sarebbe stato penoso. Eppure qualcosa — si convinse — era rimasto. «Da quel giorno — così le ultime, bellissime righe della Felicità familiare — ebbe termine il romanzo tra me e mio marito: l’antico sentimento divenne un prezioso, irrevocabile ricordo, mentre un nuovo sentimento d’amore per i figli e per il padre dei miei figli dava principio a una seconda, sebbene ormai diversissima felicità di vita, che ancora non ho finito di sperimentare nel momento in cui scrivo».
Mario Dondero (qui sopra nello scatto di Danilo De Marco) era nato a Milano, il 6 maggio del 1928 ed è scomparso ieri sera a Fermo, nelle Marche, dove viveva
Giovane partigiano in Val D’Ossola, Dondero dopo la guerra comincia a lavorare come fotografo. Partecipa alla stagione culturale di Milano legata al Bar Jamaica, con Camilla Cederna, Luciano Bianciardi, Giulia Niccolai, Ugo Mulas, Uliano Lucas. Negli anni Cinquanta a Parigi entra in contatto con scrittori, registi, filosofi, artisti. Tra le testate con cui collabora: «Le Monde», «Le Nouvel Observateur», «Regards». In Italia: «L’Illustrazione italiana», «Vie Nuove», «L’Europeo», «L’Espresso» e «Epoca»
Nella foto grande: L’uomo che voleva raggiungere la luna, 1994. A fianco: Pier Paolo Pasolini e sua madre Susanna fotografati nella loro casa romana all’Eur nel 1964