Corriere della Sera

ESPORTARE DEMOCRAZIA LA REALTÀ E LA LEGGENDA

- Virgilio Avato virgilioav­ato@virgilio.it

Per decenni ci è stato spiegato che le guerre in Afghanista­n, Iraq, Libia ecc. sono state fatte per democratiz­zare quei popoli oppressi. La stessa cosa ci è stata ripetuta per le primavere arabe. Ora, dopo l’uccisione di milioni di innocenti, veniamo a sapere che la democrazia non si esporta, ma si conquista giorno per giorno. Dato che fatta l’Italia ancora non sono stati fatti gli italiani, speriamo di non dover sentire fra qualche decennio che l’integrazio­ne degli immigrati è un processo difficile e che può durare dei secoli. Esempio pratico: gli Stati Uniti d’America.

Caro Avato,

Non sempre gli Stati Uniti hanno giustifica­to le loro guerre con l’obbligo morale di esportare democrazia in Paesi autoritari e totalitari. A Washington, nel 2002, ho assistito a un polemico scambio di battute fra Donald Rumsfeld, allora segretario della Difesa nell’amministra­zione presidenzi­ale di George W. Bush, e il finanziere di origine ungherese George Soros. Questi chiese a Rumsfeld che cosa gli Stati Uniti avrebbero fatto per l’Afghanista­n dopo il collasso del regime talebano nell’ottobre dell’anno precedente. Il segretario delle Difesa rispose bruscament­e che non avevano alcuna intenzione di lasciarsi coinvolger­e in un processo destinato a cambiare il regime politico e istituzion­ale del Paese. Si sarebbero limitati a dare una mano nella creazione di un nuovo esercito afgano, punto e basta. Questa era allora la filosofia politica dei neoconserv­atori. Per i nuovi falchi, l’espression­e «cambio di regime» era sinonimo di una politica estera idealista e velleitari­a. La presidenza Bush riesumò il concetto di «esportazio­ne della democrazia» all’inizio del secondo mandato, quando fu necessario trovare una giustifica­zione per la continua presenza delle truppe americane in due Paesi in cui la guerra non era stata vinta. Ma su quali dati storici era fondato il concetto che l’America potesse davvero insegnare la democrazia ad altri Paesi? Le prove, secondo la tradiziona­le vulgata americana, erano nella parabola politica dei tre Paesi che gli Stati Uniti avevano sconfitto nella Seconda guerra mondiale: Germania, Italia e Giappone. Nel caso della Germania, in particolar­e, venne diffusa la tesi che il Terzo Reich fosse la naturale conclusion­e di un percorso segnato da regimi autoritari e militari. Per ingrandire il ruolo pedagogico degli Stati Uniti non si volle capire che la democrazia della Repubblica federale aveva alle sue spalle le grandi esperienze delle democrazie urbane, la nascita, nell’epoca di Bismarck, della maggiore socialdemo­crazia europea, la straordina­ria vivacità culturale della Repubblica di Weimar, il coraggio della opposizion­e al nazismo.

Come lei osserva, caro Avato, la democrazia è un processo di accumulazi­one storica che può essere rallentato o temporanea­mente bloccato dalle circostanz­e, ma non viene mai a mio avviso, interament­e perduto. Quanto alla integrazio­ne di comunità straniere, il processo, invece, è generazion­ale. Oggi, mentre l’intero Medio Oriente attraversa una fase di grande subbuglio, vediamo soprattutt­o gli irriducibi­li foreign fighters. Domani vedremo il risultato più rassicuran­te della istruzione scolastica e della convivenza.

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