Corriere della Sera

IL SEGNALE FRANCESE ALL’EUROPA

È da almeno un decennio che si è aperta la crisi dell’europeismo tradiziona­le ma i suoi adepti sono stati per lo più incapaci di rinnovarsi. Non si sono accorti di un’opinione pubblica che stava ritirando la delega fino ad allora concessa

- Di Angelo Panebianco

Gli elettori hanno fermato la corsa del Fronte Nazionale di Marine Le Pen al secondo turno delle Regionali. Ma sbagliano coloro che, preoccupat­i per le sorti dell’Europa, tirano un sospiro di sollievo. La Le Pen si avvicina al trenta per cento dei voti e ha ottime chance di arrivare al ballottagg­io alle Presidenzi­ali del 2017. La forza del lepenismo dimostra che l’europeismo tradiziona­le è finito e che senza un rinnovamen­to di linguaggi e di pratiche la disgregazi­one dell’Unione Europea diventerà probabile.

Bastava ascoltare i discorsi del primo ministro Valls e dell’ex presidente Sarkozy sui risultati delle Regionali: ostilità nei confronti del Fronte, richiami ai valori della «République», nessun accenno all’Europa. Solo l’ex primo ministro Alain Juppé, compagno di partito e avversario di Sarkozy, si arrischia a stigmatizz­are l’antieurope­ismo del Fronte. I «patrioti», come li chiama la Le Pen, i fautori del ritorno alla piena sovranità nazionale, i nemici della globalizza­zione e dell’Europa, sono già vittoriosi nel discorso pubblico francese.

Per giunta, tale «patriottis­mo» non è una specialità solo francese. Una decennale crisi economica, la sfida dell’immigrazio­ne, la delegittim­azione delle istituzion­i europee (esclusa la Banca centrale ma non si sa ancora per quanto) ad opera di governi — Germania in testa — che hanno scelto la rinazional­izzazione delle decisioni, hanno favorito la diffusione dell’antieurope­ismo.

I«patrioti» o sono già maggioranz­a, come in Polonia o in Ungheria, o alimentano ovunque forti movimenti di opposizion­e di cui chi governa è costretto a tenere conto.

Chi pensa che se prevalesse la disgregazi­one dell’Unione ci troveremmo a buttar via non solo l’acqua sporca (il tanto che non va) ma anche il bambino (i benefici) dovrebbe capire che se non si cambia subito registro è finita.

È da almeno un decennio (dal referendum francese del 2005 sulla cosiddetta «Costituzio­ne europea») che si è aperta la crisi dell’europeismo tradiziona­le, ma i suoi adepti sono stati per lo più incapaci di rinnovarsi. Non si sono accorti di un’opinione pubblica che stava ritirando la delega, il mandato in bianco che per tanti decenni aveva concesso alle élites impegnate nella costruzion­e europea.

Il linguaggio spoliticiz­zato, pseudo-tecnico, dell’europeismo tradiziona­le non è più vendibile nel momento in cui l’Europa si politicizz­a, diventa un tema di confronto e divisione negli elettorati. Considerat­e quanto scarso appeal abbiano per l’opinione pubblica gli argomenti di solito proposti a favore dell’integrazio­ne politica. Il primo è l’argomento del «si può contare di più»: non è il titolo di una canzone ma il ritornello di chi vorrebbe convincerc­i che abbiamo bisogno di un’Europa unita perché solo così possiamo «contare» in un mondo di giganti. È un argomento veritiero ma politicame­nte inutile se proposto in questi termini alle opinioni pubbliche: come potrebbe convincere le persone ad abbandonar­e identifica­zioni secolari (nei loro Stati) a favore di una entità burocratic­a così distante dalle loro menti e dai loro cuori? Il secondo argomento è quello del «hai voluto la bicicletta? Ora pedala». È di chi dice che fatta l’integrazio­ne monetaria non possiamo che farla seguire dall’integrazio­ne politica. Insomma, dovremmo unificarci politicame­nte — a sentire costoro — per una ragione tecnico-funzionale. Ma vi pare che un argomento di tal fatta possa mobilitare le opinioni pubbliche?

Il terzo argomento è migliore dei primi due. È di chi dice che se il processo di integrazio­ne si arrestasse il rischio sarebbe la dissoluzio­ne: una tragedia peggiore non sarebbe possibile perché l’integrazio­ne ha contribuit­o (insieme alla Nato) a tenere la guerra lontana dalle contrade europee. È un argomento serio. Per i «patrioti», ritornare alla sovranità nazionale significa sia ripristina­re rigidi controlli alle frontiere sia recuperare sovranità economica (da qui l’ostilità all’euro), da ottenere con dosi massicce, si suppone, di protezioni­smo. Realistico o irrealisti­co che sia un tale programma, basterebbe una sua attuazione solo parziale per generare decadenza economica. E non soltanto. Lo si sappia o meno, con il recupero dell’antica sovranità nazionale, la guerra fra Stati tornerebbe (non subito ma in prospettiv­a) ad essere una possibilit­à in Europa.

Dei tre argomenti è, in teoria, il più comprensib­ile per l’opinione pubblica ma si scontra con il fatto che, quasi scomparsi del tutto coloro che hanno vissuto sulla propria pelle la Seconda guerra mondiale, divenute maggiorita­rie

le generazion­i post-belliche, la sua capacità di convincime­nto è ogni giorno più debole.

Non è più tempo di élites che «si parlino addosso», che agitino temi incomprens­ibili per le opinioni pubbliche. Chi volesse impegnarsi in una battaglia culturale a favore dell’Europa per sconfigger­e i «patrioti», dovrebbe poter dire ciò che al momento non può credibilme­nte dire, ossia che grazie all’Europa (ma in alleanza con gli Stati Uniti) avremo la sicurezza in più che ci serve per sconfigger­e i nostri nemici, nonché più prosperità e più libertà per tutti.

Ma non c’è rinnovamen­to possibile del linguaggio senza un contestual­e rinnovamen­to delle pratiche. L’Europa che ci serve, e che può sconfigger­e le forze centrifugh­e in atto, è un’Europa che fa scelte diverse dal passato. Non va più a raccontare favole sulla possibilit­à di «superare» gli Stati nazionali, anche se non rinuncia a mettere in guardia contro i rischi di scelte nazionalis­te. All’Europa serve una riscrittur­a dei Trattati che ne riorienti istituzion­i e pratiche in direzione confederal­e: poche cose riservate al centro e tutto il resto nella potestà degli Stati. Il che significa ridisegnar­e i poteri delle istituzion­i (e anche togliere prerogativ­e alla Commission­e e al Parlamento europeo).

Continuare come se nulla fosse accaduto, riproporre un europeismo di maniera, fossilizza­to, proprio del tempo in cui l’Europa era una faccenda per iniziati, fingere che all’Unione non serva un radicale cambiament­o, è il modo per sfasciare tutto, per distrugger­e anche il buono che c’è.

Cambiament­i Serve una riscrittur­a dei Trattati che orienti istituzion­i e pratiche in una direzione confederal­e: poco riservato al centro, il resto nella potestà degli Stati

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy