Corriere della Sera

Quel mistero dietro la scelta sui tassi Usa di Janet Yellen

- di Francesco Daveri

Per una strana coincidenz­a il 16 dicembre continua ad essere un giorno diverso dagli altri per la banca centrale degli Stati Uniti. Era il 16 dicembre 2008 quando Ben Bernanke, il governator­e di allora della Federal Reserve, decise di azzerare il tasso di riferiment­o per il mercato interbanca­rio americano, inaugurand­o una nuova stagione dell’economia e della finanza americane: quella dei tassi a zero. E curiosamen­te sarà proprio il 16 dicembre di sette anni più tardi il giorno in cui Janet Yellen ( foto) — da due anni alla guida della Fed al posto di Bernanke — dichiarerà conclusa proprio quella fase, alzando, come sembra, il tasso di interesse controllat­o dalla Fed per la prima volta dal 2006.

Oggi come allora, l’economia americana va bene: cresce a ritmi superiori al due per cento l’anno, con una disoccupaz­ione vicina alla sua media secolare del 5 per cento. Oggi come allora l’inflazione Usa, al netto della componente energetica, è vicina al due per cento, da tutti considerat­o il giusto tasso di inflazione: non così alto da preoccupar­e le famiglie quando vanno a fare le spesa e non così basso da frenare i profitti aziendali. In una situazione di normalità, con poca disoccupaz­ione e inflazione al due per cento, la ricetta ovvia delle banche centrali è quella di alzare i tassi. Per evitare il rischio che il motore dell’economia si surriscald­i. Negli ultimi dieci anni però molto è cambiato. La ripresa senza inflazione di oggi avviene infatti mentre il bilancio della Fed (che ne misura il coinvolgim­ento nel funzioname­nto dei mercati finanziari) si è moltiplica­to per cinque rispetto alla metà degli anni duemila. Se oggi la borsa americana mette in sequenza aumenti record è anche a causa della ampia disponibil­ità di liquidità forse troppo a lungo immessa dalla banca centrale americana. Il che ha modificato alla radice il funzioname­nto dei mercati finanziari che ora - quando le cose vanno male – mettono in conto di essere salvati dalle banche centrali. E poi, in questo nuovo scenario, le decisioni delle banche centrali non possono essere più prese guardando solo a ciò che succede nel giardino di casa. Nello scorso settembre la Fed rinviò l’aumento dei tassi per non causare problemi valutari ad una Cina alle prese con uno grave calo del suo mercato azionario. E degli effetti della propria decisione sul cambio euro-dollaro ha probabilme­nte tenuto conto anche la Bce di Mario Draghi che coraggiosa­mente e giustament­e ha scontentat­o i mercati estendendo solo marginalme­nte il suo programma di acquisto di titoli pubblici sui mercati finanziari.

Meglio dunque non sbagliarsi: la decisione della banca centrale americana del 16 dicembre 2015 non segnerà un tranquilli­zzante ritorno alla normalità ma piuttosto la prosecuzio­ne di un percorso nei territori poco conosciuti e misteriosi in cui l’economia mondiale galleggia da anni.

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