Poca luce alle finestre, stanze fredde, elettricità a singhiozzo. E fuori solo macerie
deriamo i curdi iracheni fratelli, ma non ci piace affatto il loro rapporto di stretta cooperazione con la Turchia di Erdogan», riassumono all’ufficio stampa dello Ypg nella cittadina di Amudah.
Visto che il confine con la Turchia è adesso praticamente chiuso, il passaggio più facile per raggiungere Kobane è dall’Iraq settentrionale in barca sul Tigri presso il villaggio di Fishkabur. Qui uno stretto nastro d’asfalto corre tra colline brulle puntellate da centinaia di vecchi pozzi ancora funzionanti per l’estrazione del petrolio. «Abbiamo poca acqua. Ma la benzina non ci manca», sostiene l’autista, protestando però che la raffinazione artigianale del greggio rovina i motori. In compenso costa nulla: un euro per 13 litri di benzina. I villaggi sono poveri, ma si trova tutto e la polizia controlla il traffico. La paura di infiltrazioni dell’Isis è cresciuta dopo il blitz del 25 luglio, quando un centinaio di jihadisti travestiti da combattenti delle milizie sunnite moderate e da curdi riuscirono a raggiungere Kobane, mettendo la città a ferro e
Pari diritti Nelle regioni curde, non c’è differenza tra i sessi: «Siamo socialisti, crediamo nell’uguaglianza»
fuoco. «Uccisero 261 persone, e i feriti furono oltre 300», ricordano all’ospedale. Da allora di notte i movimenti sono strettamente regolamentati e ogni nucleo urbano ha organizzato una fitta rete di posti di blocco. Il centro di Qamishli, l’aeroporto e il punto di passaggio con la Turchia restano sotto controllo del regime di Bashar Assad. Colpisce incontrare le bandiere con le tre stelle di Damasco nel cuore della provincia curda. «La nostra priorità al momento è battere l’Isis, con il regime faremo i conti più tardi. Se Bashar ordinasse alla sua aviazione di bombardarci qui sarebbe il caos. Grazie a questo modus vivendi restiamo invece una delle province più calme di tutto il Paese», spiega Joan Mirzo, giornalista locale.
Più avanti le rovine della guerra diventano molto più evidenti. Per lunghi tratti le barriere di fili spinati, le reti e i campi minati puntellati dalle torri di guardia e i nidi di mitragliatrici sovrastati dal simbolo della mezzaluna turca sono a poche centinaia di metri dalla strada. Nella regione della cittadina di Tell Abayad molti villaggi sino a un anno fa erano a maggioranza araba. Uno dei tanti territori di confine tra diverse comunità etniche e religiose del Medio Oriente, che nella storia sono stati il cuore di guerre e massacri. Un autista accenna a gravi e recenti episodi di discriminazioni e deportazioni da parte delle unità curde ai danni degli arabi, non molto diversi da quelli perpetrati dai sunniti e l’Isis contro i curdi. I segni del resto sono evidenti: interi villaggi vuoti, danneggiati da bombe e cannonate. Case, scuole, fattorie abbandonate e dovunque slogan sui muri inneggianti alla lotta di liberazione curda. Denunce contro le persecuzioni anti-arabe sono giunte di recente anche da Amnesty International. Ma i militanti dello Ypg negano con forza. «Non c’è stata alcuna pulizia etnica. Anzi, cerchiamo l’alleanza con le milizie sunnite determinate a battere l’Isis», replicano duri. A Kobane 70.000 persone, circa il 60 per cento degli abitanti originari, sono tornate alle proprie case. Meglio vivere in un appartamento danneggiato, che da profughi in Turchia. L’attività di ricostruzione è intensa. Comitati di quartiere si preoccupano dei bisogni primari. Ma il blocco turco e la necessità di viaggiare sino al confine iracheno rallentano l’economia e rendono tutto più difficile. Dato più rassicurante resta l’affievolirsi della minaccia dell’Isis. «Sino allo scorso luglio nel nostro ospedale militare ricevevamo una media di 15-20 combattenti feriti gravi al giorno. Oggi siamo scesi a meno di 5. E tutti per mine, cannonate o colpi di mortaio: ovvio che si spara a distanza», spiega Mohammed Aref Ali, medico anestesista noto per essere tra i quattro dottori che l’anno scorso decise di non fuggire nel momento più grave dell’assedio.