Corriere della Sera

Usa, stretta della Fed sui tassi Yellen, primo rialzo dal 2006

Oggi la decisione. Piazza Affari su del 3,7% e Wall Street di oltre l’1%

- DAL NOSTRO CORRISPOND­ENTE Giuseppe Sarcina

Secondo i traders di New York l’aumento dei tassi di interesse americani è quasi certo: 85% di probabilit­à. Le Borse, invece, ne sono così sicure che sono già oltre, in pieno recupero, anche grazie al rimbalzo dei prezzi del petrolio. Wall Street ha aperto con più 0,8%. Piazza Affari, ieri la migliore in Europa, ha chiuso con + 3,74%, Londra + 2,45%; Francofort­e + 3,07%.

La presidente della Federal reserve, Janet Yellen, dovrebbe dunque annunciare oggi un incremento tra lo 0,25% e lo 0,50% del saggio di riferiment­o, sbloccando il costo del denaro fermo dal gennaio 2009 in una fascia compresa tra lo 0 e lo 0,25%.

Un cambio di passo, non una rottura traumatica. La mossa della Fed rafforzerà ulteriorme­nte il dollaro (ieri il cambio con l’euro è rimasto sostanzial­mente stabile intorno a 1,1); limerà le esportazio­ni di merci statuniten­si; complicher­à un po’ le strategie delle multinazio­nali che si finanziano con la valuta americana e fatturano in altre monete; faciliterà le imprese, e quelle italiane sono molte, che esportano negli Usa.

Negli ultimi mesi la Fed ha ruminato a lungo i dati dell’economia nazionale. Yellen ha sempre insistito su due requisiti: il ribasso degli interessi diventerà reale solo quando la percentual­e di disoccupat­i scenderà stabilment­e sotto la soglia del 5% e quando il tasso di inflazione si avvicinerà al 2%. Sul primo numero ci siamo, sul secondo no. Nell’ultimo anno i prezzi sono saliti solo dello 0,2%, che diventa un 1,5% se si escludono i rincari più volatili legati all’energia e all’alimentare («core inflation»).

Secondo le previsioni della stessa Fed l’inflazione si avvicinerà al 2% entro il 2016. Ma negli ultimi quattro anni, stime analoghe si sono rivelate sempre sbagliate. La prima a notarlo è stata proprio Janet Yellen, lo scorso settembre. Ecco perché è lecito attendersi che la leader della Banca centrale degli Stati Uniti non abbandoner­à l’approccio flessibile e prudente. Con un sentiero che porterebbe il tasso di interesse all’1,35% a fine dicembre 2016, da raggiunger­e con quattro distinti incrementi. Poi su fino al 2,62%, livello da toccare al termine del 2017.

Se questi sono i numeri, la distanza tra le politiche monetarie di Fed e Bce sembra destinata ad allargarsi in modo sensibile. Alla fine del prossimo anno, se Mario Draghi resta fermo, lo spread tra il tasso americano e quello europeo tornerebbe ai livelli del 2011.

Ma oggi il quadro dei Paesi più industrial­izzati appare molto più compatto di allora. Ancora qualche cifra: l’Eurozona ha un tasso annuo di inflazione pari allo 0,1% contro una crescita dell’1,9%; gli Stati Uniti, 0,2% contro 2,2%; il Giappone, 0,3% rispetto all’1,1%; il Regno Unito -0,1% di inflazione e 2,3% di crescita. Bene o male tutte le aree di questo emisfero economico condividon­o lo stesso rischio di deflazione e hanno le medesime difficoltà a consolidar­e lo sviluppo. Nel biennio che comincia oggi la Fed potrà spostare qualche peso, ma senza sconvolger­e l’attuale equilibrio tra Stati Uniti, Europa e resto del mondo.

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