Corriere della Sera

Italia, bellezza struggente e perduta

La denuncia di Raffaele La Capria: siamo un popolo di scimmie che devasta il paesaggio

- Di Carlo Vulpio

Sapevamo, o credevamo di essere «un popolo di poeti, artisti, eroi, santi, pensatori, scienziati, navigatori, trasmigrat­ori», com’è scritto (da un discorso di Benito Mussolini del 1935) sulle quattro facciate del Palazzo della Civiltà del Lavoro, a Roma-Eur. Invece siamo «un popolo di scimmie», dedito allo «smantellam­ento brutale e alla distruzion­e metodica della bellezza, alla trasformaz­ione di luoghi bellissimi in luoghi senz’anima», scrive, dispiaciut­o e adirato come Achille, Raffaele La Capria in Ultimi viaggi nell’Italia perduta (Bompiani).

Il viaggio di La Capria non è il Grand Tour di Montaigne e di Goethe — sempre citati e ovviamente guardati come punti di riferiment­o — ma è «un» viaggio, che, come quelli compiuti durante tutto il secolo XX dagli scrittori italiani e stranieri innamorati dell’Italia, privilegia un dato, un aspetto, un elemento, o anche soltanto una parola chiave. Quella di La Capria è «bellezza». Intesa non in senso puramente estetico, ma come la principale nota caratteris­tica della carta d’identità italiana, poiché nessun Paese al mondo ha un paesaggio così bello come quello italiano. È quindi naturale che sfregiare questa bellezza, «come accade sistematic­amente da quarant’anni», significa devastare anche la vita sociale, «poiché il degrado ambientale è sempre accompagna­to da un degrado umano». E anche quando può sembrare che il frenetico attivismo distruttiv­o di questo popolo di scimmie non riguardi ognuno di noi, dovremmo ricordarci che, volenti o nolenti, di questo popolo di scimmie anche noi facciamo parte. Quindi, «non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te», affermava John Donne nel celebre Nessun uomo è un’isola, che trecento anni dopo avrebbe ispirato a Ernest Hemingway il titolo del suo romanzo Per chi suona la campana. E la campana di La Capria suona a martello, avvertendo tutti dell’imminenza di un pericolo, di una catastrofe, almeno da cinquant’anni, da quando insieme con Francesco Rosi scrisse soggetto e sceneggiat­ura di un capolavoro del nostro cinema, Le mani sulle città, il cui tema è lo stesso che ricorre in gran parte di questo suo ultimo lavoro, e cioè «l’intreccio perverso di affarismo, politica e incultura».

Ma Ultimi viaggi nell’Italia perduta è anche un libro delicato e struggente, perché è anche un viaggio di La Capria dentro la propria anima, l’unico luogo in cui quei paesaggi

Emozioni Solo nell’anima dell’autore quei luoghi meraviglio­si e «sacri» esistono ancora

così belli da poter essere definiti «sacri» esistono ancora e suscitano emozioni così intense da essere insopporta­bili. E allora quella Bellezza sempre inseguita, che permea di sé certi luoghi, certe persone, certi momenti di vita quotidiana, può anche far piangere, immalincon­ire, perché forse non ti sei mai sentito pienamente degno di lei o perché quando riapri gli occhi vedi che quei luoghi non ci sono più o non sono più gli stessi, e nemmeno tu sai bene dove ti trovi e chi sei.

La Capria sa che vale anche per lui ciò che lui dice degli altri suoi «compagni di viaggio» — Douglas, Gissing, D. H. Lawrence, C.S. Lewis, Horne Burns, Ungaretti, Comisso, Malaparte, Brandi, Ceronetti, Pasolini, Piovene, Antonio Cederna — e cioè che «se non si fanno altri danni è soltanto perché non ci sono altri danni da fare». E non nasconde la frustrazio­ne che avvilisce lui, uomo del Sud, più degli altri, di fronte allo stupro del paesaggio, in un Paese che pure dice di volerlo tutelare con un articolo della Costituzio­ne, e invece lo avvelena, lo abbruttisc­e, lo sconvolge con discariche, selve di pale eoliche, edilizia paranoica dentro e fuori le città. Com’è accaduto alla costa da Nisida a Capo Miseno, dove «una lapide nera avrebbe dovuto ricordare i nomi dei sindaci e dei pubblici funzionari che hanno concesso i permessi, per maledirli in nome del popolo italiano e additarli alla pubblica esecrazion­e». Ma non si dica che questo è l’urlo di un «nostalgico» contro gli stolti (e criminali) «disincanta­ti». Perché se è vero che il popolo di scimmie si congratula con se stesso per la rovina di tutti, e quindi anche per la propria, una funzione il «nostalgico» oggi ce l’ha: «È quella di ripetere ostinatame­nte ai disincanta­ti com’era pulito il mare quand’era pulito, com’era bella la giornata quand’era bella e com’era vivibile la città quand’era vivibile».

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