E se dopo l’amore diventassimo blu? Le normali stranezze di Quiriny
Personaggi che il lettore non incontrerà in nessun luogo. Cronache che sovvertono l’ordine delle cose. Mondi paralleli che allargano lo sguardo abituato al realismo. E una scia di inquietudini, ipotesi, riflessioni che permane a libro chiuso.
La letteratura fantastica (non la fantasy) è tornata e porta il nome del talentuoso Bernard Quiriny. Belga di nascita (1972), francese d’adozione, a ogni raccolta di racconti guadagna un premio prestigioso. In Italia erano stati già tradotti i Racconti carnivori (Omero editore, 2009) e La biblioteca di Gould ( L’orma, 2013) e ora arriva Storie assassine, che il premio lo ha sfiorato, finendo nella selezione del Goncourt 2015.
Nonostante il titolo, sono pochi, in fondo, i criminali in questo libro, capace di dissimulare la sua iperletterarietà nella perfetta concordia col testo e di farla ogni tanto esplodere in una risata. Molti dei venti racconti riguardano disastri di altra genesi. La vita è più che mai una sorpresa qui; e la morte, nelle sue (im)possibili incarnazioni, è senz’altro la brillante fiaba della nostra finitezza. Un modo lieve di rimandare all’avventura esistenziale di una creatura sconosciuta a se stessa.
Non c’è registro che Quiriny non usi, dalla satira sociale all’inquietudine alla Poe, dall’ironia alla parodia. Frequenta con misura la freddura, più spesso l’assurdo, gioca col paradosso. E stupisce, continua a stupire perché è un autore che unisce la fantasia sfrenata al rigore della regola. Quasi un vago omaggio all’Oulipo, il suo, nell’assumere una norma che non appare immediatamente, ma crea una lettura varia e ritmata. Non si tratta soltanto dell’orchestrato cambio di registri retorici di storia in storia. Nel testo ci sono rimandi, giochi ragionati, fili tessuti in un lavoro sotteso, metaletterario.
Di primo acchito, l’impressione è quella di trovarsi di fronte a una raccolta di racconti scollegati. Non è così. In primo luogo, ci sono personaggi ricorrenti. Il dottor Hampstadt è protagonista di tre avventure e i suoi sarebbero casi neurologici, come la donna che riesce a evitare gli ostacoli soltanto camminando all’indietro. Eppure la spiegazione o la soluzione (se c’è!) è spesso filosofico-esistenziale. Tornano quattro volte le cronache di un gruppo di giovani antropologi alle prese con gli usi di improbabili tribù primitive, impegnati a vergare analisi vagamente demenziali. Ricompaiono anche, in divertente parodia, le rettifiche a raffica, riproposte in due capitoli distanti.
Ci sono poi associazioni di temi che percorrono il libro, come il sesso: a) manifesto: che accadrebbe se dopo ogni amplesso ciascuno si ritrovasse a uscire con la pelle blu?; b) ridicolo: tra i Bekamì amazzonici dalle tende, specie di notte, si levano sonore ilarità; e non è detto che non siano di buon auspicio; c) inquietante: che succederà al marito medio dopo la scoperta che le sue fantasie erotiche incidono sulla realtà?
Un filo meno evidente lega gli oggetti che si ripropongono nei diversi racconti, compreso uno in cui si animano. Ed è bene fare attenzione: se in un telegrafico messaggio un medico prescrive un numero errato di capsule da assumere (con tardiva telegrafica correzione), si ride lo stesso, ma si coglie più pienamente lo humour Più Poe che Borges nei racconti più inquietanti dove si alternano ironia e humour nero
nero facendo caso, molte pagine prima, al capitolo La cura miracolosa e a tutti gli effetti che produce il farmaco della vita moderna...
C’è un gusto alla Poe, più che alla Borges, cui normalmente Quiriny è associato, nelle storie che provocano più inquietudine. Vi immaginate un protagonista dal corpo sdraiato, ammollito, vedere il suo scheletro scrivergli una lettera? L’autore lavora anche su quanto gli umani, con le lodi ro ossessioni siano gli artefici dei guai o degli eventi che subiscono o vivono.
Ad accomunare tutti i testi è l’ironia che permette all’autore una visione laterale, obliqua del mondo. Magari nata da un’idea, che si sintetizza in un’immagine. A partire da essa lo scrittore costruisce il racconto, quasi svuotandolo del tutto del pensiero originario. Ma è proprio quel germe svuotato di pensiero a lasciare echi in chi legge. L’ambiguità che ne deriva, unita alla distanza dell’ironia, genera spicchi di universo nei quali sono teoricamente possibili tutte le soluzioni. I racconti finiscono così per suscitare domande, dubbi, convinzioni: di che cosa starà parlando davvero l’autore?
Il suo obiettivo è, naturalmente, rendere il più possibile instabile ogni risposta. Gioca con il lettore perché trovi la propria interpretazione. Ciò vale in misura diversa a seconda dei racconti, dall’estrema incertezza di quelli amazzonici, nei quali pare divertirsi a suscitare domande sostanzialmente pretestuose, alla satira sociale dissimulata ne La capitale decapitata: che mai sarà l’isola di Roviera se non Bruxelles che governa l’Europa?