Corriere della Sera

Rassegniam­oci, anche Internet ha bisogno delle regole

Se lo strapotere statuniten­se sui nostri dati è inaccettab­ile, altrettant­o sbagliata sarebbe una frammentaz­ione nazionale di Internet proprio quando è più necessario il massimo di collaboraz­ione per la lotta al terrorismo

- Di Edoardo Segantini

Serveuna governance per Internet? L’ambito territoria­le del web è l’oggetto di una disputa tre le due sponde dell’Atlantico. Il contrasto nasce dal fatto che, nonostante il 90% degli internauti viva fuori dagli Usa, i dati personali che li riguardano sono in America, custoditi nei server delle cinque maggiori aziende digitali: Google, Facebook, Microsoft, Amazon e Yahoo!. I dati di cui parliamo sono informazio­ni preziose non solo per la lotta contro i crimini cibernetic­i, ma anche per le indagini su reati comuni che lasciano tracce e prove elettronic­he.

Chi ha detto che Internet non ha confini? Li ha eccome. L’ambito territoria­le è anzi l’oggetto di una nuova disputa che contrappon­e le due sponde dell’Atlantico. Il contrasto origina dal fatto che, nonostante il 90% degli utenti del web viva fuori dagli Usa, i dati personali che li riguardano sono in America, custoditi nei server delle cinque maggiori aziende digitali del pianeta: Google, Facebook, Microsoft, Amazon e Yahoo!.

Parafrasan­do Churchill sull’eroismo dei piloti della Raf, si potrebbe dire che mai, nella storia umana, tante persone siano state creditrici d’informazio­ni verso così poche. «Questo paradosso — scrive il giurista Andrew Keane Woods sul New York Times — poteva essere tollerabil­e quando era alta la fiducia verso gli Stati Uniti. Ma dopo che Edward Snowden ha rivelato le attività della Nsa e le sue intrusioni nella privacy degli utenti, questo sentimento è venuto meno».

I dati di cui parliamo sono informazio­ni preziose non solo per la lotta contro i crimini cibernetic­i, ma anche per le indagini su reati comuni che lasciano tracce e prove elettronic­he, ad esempio omicidi, furti e rapine: email inviate durante i rapimenti o frasi sui social network che possono rivelarsi utili a identifica­re i criminali e — naturalmen­te — a captare comunicazi­oni tra terroristi. Solo dal Regno Unito sono partite verso l’America 54 mila richieste di dati, rivolte ai cinque big della Rete. Le richieste attendono in media un anno.

Lo squilibrio nella gestione globale del «magazzino dati personali» poggia su due pilastri. Il primo è la legge americana del 1986, che prescrive alle aziende tecnologic­he di cedere i file conservati in America solo in risposta all’ordine di un giudice americano. Non è difficile capire quali assurde conseguenz­e comporti questo esasperato senso del «territorio» e della giurisdizi­one, che fa a pugni con la logica della tecnologia e del cloud (la «nuvola» decentrata dei computer).

Il secondo è il «Safe Harbour Agreement» tra Ue e Stati Uniti, l’accordo approvato dalla Commission­e europea 15 anni fa, che ha consentito a Facebook di raccoglier­e i dati sui suoi 23 milioni di utenti italiani per poi trasferirl­i sui propri server in territorio americano. Il «porto sicuro», per l’appunto.

Ma sicuro per chi? si è chiesta la Corte di Giustizia europea. Così, due mesi fa, ha bocciato l’accordo, provocando una crepa nel secondo pilastro. Il primo invece resta lì, solido e ben piantato, a rallentare le indagini. E crea le condizioni per due conseguenz­e estreme, che sembrano inventate dal demoniaco protagonis­ta de Il giudice e il suo boia di Friedrich Dürrenmatt. Poiché la legge americana, con i suoi tempi, scoraggia la ricerca di prove digitali attraverso vie legali, sostiene Keane Woods, le polizie europee cominciano a imboccare quelle illegali: diventano hacker e usano i software pirata per penetrare nei database che racchiudon­o i dati.

L’altra conseguenz­a è che alcuni Stati membri adottano norme che, pur di ottenere il risultato, diventano anti-democratic­he. Come nel caso - criticato anche dal Garante italiano della Privacy, e, sul Financial Times di ieri, da Apple - della proposta di legge inglese chiamata «Snooper’s Charter» (Carta dell’impiccione), che autorizzer­ebbe la polizia a violare i computer e obblighere­bbe gli Internet provider a tener traccia per un anno delle attività di navigazion­e dei clienti.

Si corrono insomma due rischi: da un lato quello di sostituire all’indagine la raccolta preventiva dei dati, che, come ha scritto Luigi Ferrarella su queste pagine, è, oltre che anti-privacy, totalmente inutile; dall’altro quello di confondere il diritto alla riservatez­za con il dovere degli investigat­ori di investigar­e.

Se lo strapotere Usa sui nostri dati è inaccettab­ile, altrettant­o sbagliata sarebbe una frammentaz­ione nazionale di Internet proprio quando più serve, per la lotta al terrorismo, il massimo della collaboraz­ione. La bocciatura del «Safe Harbour Agreement» crea un vuoto e un’opportunit­à che ci possono aiutare. E le nuove regole europee per la protezione dei dati vanno nella giusta direzione.

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