Il killer beffato (32 anni dopo)
Torino, un arresto dopo 32 anni. La polizia scrive al boss, poi lo intercetta
Unalettera anonima, inviata dalla mobile di Torino, ha permesso l’intercettazione che ha portato all’arresto di un killer di Bruno Caccia. Dopo 32 anni. È l’unico magistrato ucciso al Nord dalla ‘ndrangheta.
È più difficile far confessare un segreto trentennale, oppure, una volta che si è stati capaci di farselo sussurrare, è più arduo trovare il modo di ascoltarlo? Per identificare i mai trovati killer di Bruno Caccia, procuratore della Repubblica di Torino assassinato dalla ‘ndrangheta alle 23.30 del 26 giugno 1983 e unico magistrato ucciso al Nord Italia dalla criminalità organizzata, la Squadra Mobile di Torino e la Procura di Milano hanno azzardato una scommessa fatta di un’intuizione, di una pazza idea e di una diavoleria tecnologica. L’intuizione dei poliziotti-analisti guidati da Marco Martino: che un qualche ruolo l’avesse avuto un affiliato «piemontese» della cosca di Gioiosa Jonica, l’allora 29enne Rocco Schirripa, mai neppure sfiorato dai pentiti che al processo costarono invece l’ergastolo come mandante al boss Domenico Belfiore. La pazza idea: sfruttare la concessione dei domiciliari a Belfiore (per gravi motivi di salute) per spedire alla sua cerchia una lettera anonima («Se parlo andate tutti alle Vallette») contenente, tra altri, proprio il nome di Schirripa, e vedere quali dinamiche scatenasse. E la diavoleria tecnologica: visto che gli ‘ndranghetisti stavano attenti alle intercettazioni telefoniche o ambientali in casa, e parlavano solo sul balcone o in strada fuori da una panetteria, infettare a distanza i loro smartphone o tablet con uno spyware, cioè un virus informatico che su comando dei poliziotti attivasse il microfono e trasformasse in microspie umane le persone che li tenevano addosso.
È così che il procuratore aggiunto Ilda Boccassini e il pm Marcello Tatangelo hanno carpito quella sorta di confessione stragiudiziale che ha consentito al gip Silvana Pepe di arrestare dopo 32 anni Schirripa quale secondo killer (sceso dall’auto a dare i colpi di grazia alla testa di Caccia uscito senza scorta con il cane), e di comprendere che Belfiore dell’agguato era stato pure l’autista.
Fino a ieri quel poco che si sapeva risaliva ai nastri (poi giudicati inutilizzabili) con i quali nel 1984 il collaboratore catanese Francesco Miano aveva registrato in cella (con un apparecchio datogli dai servizi segreti) le confidenze di Belfiore sulla propria decisione di far uccidere Caccia perché ostacolo per i clan, a differenza di altri pm torinesi allora vicini ai clan tramite il titolare del bar sotto la Procura. Sui killer niente. Nel luglio 2015 i figli di Caccia con l’avvocato Fabio Repici sollecitano nuove indagi-
ni, prospettando fosse stata non la ‘ndrangheta ma Cosa Nostra messinese ( Rosario Cattafi), per bloccare un’indagine sul Casinò di Saint-Vincent, e con la complicità depistatrice sia di 007 sia del pm milanese Francesco Di Maggio. Questa pista viene ora definita «priva della benché minima consistenza probatoria» dagli investigatori, che però proprio in questo fascicolo, quando Belfiore malato va ai domiciliari l’11 giugno, hanno l’idea della finta lettera anonima. L’«escamotage investigativo» funziona e «stimola i commenti» del clan: «Il nome in più sulla lettera da dove è venuto fuori? È chiaro che questi che ciuciuciuciu… ma tutte ‘ste notizie…se Rocco ha parlato con qualcun altro...». L’interessato, Schirripa, finisce per ammettere ai sodali d’essersi fatto scappare in carcere qualche parola con un altro ‘ndranghetista, che Belfiore punta: «Se io lo individuo…è una cosa che mi sbrigo io…me lo tolgo dai piedi». Ma intanto sbaglia l’aritmetica giudiziaria («Fino a 30 anni mi pare») quando Schirripa gli chiede in quanto si prescriva l’omicidio: «Allora perché dobbiamo stare lì a preoccuparci?», sbotta Schirripa, e Belfiore: «È a protezione tua che ci stiamo preoccupando». Anche troppo, visto che nel clan ci si tradisce sul «dove avete posteggiato l’auto» dell’agguato. Resta un dubbio: possibile che un delitto di questo livello sia stato deciso dal solo boss Belfiore a Torino, senza quel ruolo della casa madre calabrese postulato dall’interpretazione dell’«unitarietà della ‘ndrangheta», certo non matura negli anni ‘80 ma accolta di recente dalla Cassazione nel processo milanese «Infinito»? Rispondono due dettagli. L’accusa a Schirripa: omicidio in concorso non solo con Belfiore, ma anche «con terzi allo stato non identificati». E poi un frammento intercettato di Belfiore: «Si sì, va beh, dice... quelli là di sotto lo sapevano quasi tutti».