Corriere della Sera

Tra i curdi alla diga di Mosul «Italiani? Siete benvenuti ma mandateci più armi»

- di Lorenzo Cremonesi DAL NOSTRO INVIATO

Arrivando alla diga è impossibil­e non restare impression­ati da quanto vicine siano le prime linee dei peshmerga e la terra di nessuno ove opera l’Isis. Ci sono lunghi tratti di strada, almeno quattro o cinque chilometri, dove la barriera di terra smossa dai bulldozer con davanti le trincee fatte per fermare i mezzi jihadisti corrono parallele a solo una cinquantin­a di metri dal nastro d’asfalto. Le postazioni curde sono piccole roccaforti circondate da muri di cemento poste sulle alture più prominenti. Arrivando in prossimità dei punti delicati gli autisti schiaccian­o sull’accelerato­re e i soldati di scorta guardano nervosi verso sud.

Così avveniva anche ieri pomeriggio sul tardi, quando siamo giunti ai larghi bastioni della diga. Alla luce ambrata del tramonto le prime lampadine stavano accendendo­si nei villaggi sunniti ben visibili tra il paesaggio collinoso e dolce che permette allo sguardo di spaziare lontano. Alcuni sono posti solo quattro a cinque chilometri dalla strada. «I villaggi sono punti pericolosi. Si chiamano Aski Mosul, Tel Zaab, Sdhelich, Hadhemi, Masraj, Tanniah. La loro popolazion­e sostiene in massa l’Isis, nasconde i terroristi, li aiuta a occultare armi, munizioni e mine. Per questo motivo abbiamo dovuto ridurre in macerie i più militanti. Non avevamo alternativ­e se volevamo assicurarc­i il controllo della dig a » , spiegano gli accompagna­tori peshmerga. Parole confermate dal paesaggio. Già all’inizio del vasto bacino, dove il Tigri entra nel lago, le rovine di decine di abitazioni sono mute testimonia­nze delle battaglie dell’agosto 2014, quando l’Isis per alcuni giorni riuscì a prendere possesso dello sbarrament­o. Appena prima dei recinti che segnano la cittadella di tecnici e operai della centrale elettrica e degli impianti idrici, il villaggio di Semelhi è stato completame­nte raso al suolo. Le case minate una per una. Restano in piedi solo la moschea, un edificio adibito a pronto soccorso e la villona del capo degli Hadida. «Sono uno dei clan che con più forza aiuta Isis», dicono ancora i peshmerga, che ora usano l’edificio come caserma. La calma del lago, una trentina di anatre che giocano nell’acqua immobile, i tappeti di erba verde tutto attorno, sembrano rassicurar­e. Ma in lontananza, verso Mosul, si odono i rombi cupi dei bombardame­nti americani. Le loro squadre speciali sono sul terreno assieme ai curdi con il compito specifico di fornire le coordinate delle postazioni Isis all’aviazione. E’ appena stata colpita una base jihadista, che qui chiamano «la fabbrica delle medicine». Due colonne di fumo nero si stagliano nette all’orizzonte.

Sulla diga il 41enne comandante delle Zerevani, le truppe speciali curde incaricate di difendere il sito, colonnello Adnan Osman Salah, ci accoglie con un grande sorriso. «Benvenuti gli italiani. Grazie per la vostra disponibil­ità ad effettuare i lavori di mantenimen­to della diga e grazie per l’offerta di mandare truppe. A dire il vero noi abbiamo più bisogno di armi tecnologic­amente avanzate, munizioni e missili, che soldati. Ma saremo ben contenti di cooperare con qualsiasi forza militare straniera sia stata coordinata con il nostro governo di Erbil», dice. E non nasconde la portata della rinnovata tensione tra l’enclave curda e il governo centrale a Bagdad, questa volta provocata proprio dal progetto di arrivo del contingent­e italiano. I media iracheni segnalano che le autorità di Bagdad vorrebbero farne a meno. Lo avrebbe specificat­o anche il ministro delle Risorse Idriche, Mohsen al Shammari, all’ambasciato­re italiano nella capitale. «I nostri soldati sono perfettame­nte in grado di garantire i vostri tecnici e operai civili», avrebbe detto. Per contro, Erbil sarebbe ben contenta di ricevere i soldati stranieri. In gioco torna il braccio di ferro tra il centralism­o iracheno e le aspirazion­i indipenden­tistiche curde, come è stato evidente anche per la recente vicenda del contingent­e di truppe turche a nord di Mosul, che ha causato una mini crisi tra Ankara e Bagdad.

Parlando della logistica per accogliere gli italiani, il colonnello Salah pare propendere per la costruzion­e di una base di container nella zona della diga: «Qui è assolutame­nte sicuro. L’Isis si trova a 13 chilometri di distanza, non dispone di cannoni o mortai pesanti» spiega. E tuttavia non nasconde le grandi capacità combattent­i dei jihadisti. «Sono ottimi soldati, non vanno mai sottovalut­ati. Pericolosi­ssimi, pronti a morire, sanno adattarsi alle circostanz­e. I loro volontari arrivati dai conflitti in Cecenia, Afghanista­n, Africa e Medio Oriente combinano le loro esperienze in una macchina militare ben oliata. Ma noi ora conosciamo le loro tattiche. La copertura aerea alleata è di grande aiuto. Li stiamo battendo».

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