Corriere della Sera

LA CRESCITA CHE SERVE PER IL 2016

- Di Lucrezia Reichlin

Siamo arrivati alla fine del 2015. La Banca centrale europea, che ha sperimenta­to quasi un anno di Quantitati­ve Easing (Qe), continuerà con acquisti di titoli di Stato e tassi intorno allo zero nel 2016 e probabilme­nte oltre. La Federal Reserve americana ha invece compiuto il primo passo verso una graduale stretta monetaria alzando dello 0,25 per cento il tasso di interesse, in risposta a dati che segnalano un’economia Usa in riscaldame­nto con un mercato del lavoro che marcia verso la piena occupazion­e.

Un’interpreta­zione facile della diversità delle politiche delle due banche centrali è che mentre gli Usa sono ripartiti e possono celebrare un ritorno alla normalità dopo sette lunghi anni di trauma post 2008, nella zona euro siamo ancora lontani dalla guarigione. In parte è così, ma non proprio. Per capirlo, torniamo a un anno fa. Dove siamo oggi, in chiusura del 2015, rispetto a dicembre 2014?

La zona euro chiudeva il 2014 dopo un anno di crescita anemica, sotto l’un per cento, che seguiva due anni di crescita negativa. Per l‘Italia, con un 2014 ancora in rosso, il quadro era ben peggiore. Inoltre, le stime per il 2015 suggerivan­o che la stagnazion­e sarebbe continuata: a fine 2014, infatti, la Bce stimava la crescita per l’anno successivo a un tasso appena dell’un per cento. Con una inflazione in decelerazi­one e un debito complessiv­o ancora in aumento, si discuteva se l’istituto dovesse o no lanciare il programma di Qe, programma poi effettivam­ente messo in opera nel gennaio del 2015.

Ben diversa la situazione degli Usa che uscivano da un 2014 cresciuto al ritmo del 2,5%, lo stesso dell’anno precedente, e prevedevan­o che l’economia si sarebbe rafforzata ulteriorme­nte arrivando a crescere nel 2015 al 3,5%. Con quei numeri la svolta della Fed era attesa ben prima di quanto non sia effettivam­ente avvenuto.

Un anno è passato. A fine 2015 sappiamo ora che la zona euro è andata meglio del previsto e gli Stati Uniti peggio. Nel 2015 questi ultimi sono rimasti inchiodati a un tasso appena appena sopra al 2% mentre noi ci siamo attestati all’1,5%. È ragionevol­e pensare quindi che per ambedue le economie la crescita potenziale, ovvero quella di lungo periodo, si assesterà a ritmi più bassi di quelli dei 15 anni precedenti il 2008.

Per questo, nonostante la Fed aumenti i tassi oggi, è probabile che li mantenga bassi per lungo tempo per evitare di strozzare quel poco di crescita che c’è e per far sì che l’inflazione ritorni a tassi intorno al 2%. Low for long (bassi per un lungo periodo), così i mercati hanno definito questa prospettiv­a. E se questo è vero per gli Usa, tanto più è vero per l’Europa e per il Giappone. Non aspettiamo­ci di tornare alla cosiddetta «normalità» della politica monetaria nel prossimo futuro.

Ma ciò che conta non sono solo i tassi, ma anche la dimensione dei bilanci delle banche centrali, bilanci che si sono ingrassati ovunque in questi anni di Qe. La Fed non prevede di diminuire il suo stock di attivi finanziari prima di avere completato il ciclo di graduale aumento di tassi d’interesse, una data probabilme­nte lontana. È inoltre probabile che la Banca del Giappone e la Bce aumenteran­no gli acquisti: si stima che per il 2017 la prima raggiunger­à un rapporto attivi-Pil del 34% e la seconda del 108%. Quindi, anche con il rialzo dei tassi da parte della Fed, il mondo continuerà ad avvalersi di condizioni finanziari­e facili a fronte di un’economia debole e un debito globale che non si stabilizza. Rischi di volatilità permangono e mai come ora è importante focalizzar­e gli sforzi sull’economia reale chiedendo alle banche centrali di continuare a vegliare su stabilità dei prezzi e stabilità finanziari­a. Con un’economia globale appesantit­a da fragilità struttural­i e destinata a bassa crescita, come ha detto Larry Summers, «non stiamo dicendo addio per sempre ai tassi di interesse a zero» e, aggiungo io, neanche a quelle azioni straordina­rie delle banche centrali delle maggiori economie del mondo che, messe in atto in risposta alla grande crisi, stanno diventando parte di una nuova «normalità».

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