Corriere della Sera

L’immancabil­e «milleproro­ghe»

Il provvedime­nto introdotto nel 1993 è diventato un appuntamen­to fisso

- di Sergio Rizzo

La legge finanziari­a dei mille commi, che ci si ostina chissà perché a chiamare «di stabilità», è stata appena sfornata e già è pronto un richiamino. Lo ha approvato ieri il Consiglio dei ministri: è noto come decreto «milleproro­ghe», parola ormai entrata nel lessico al punto da essere bollinato dal vocabolari­o della lingua italiana Treccani. Che ha rintraccia­to la radice di quel geniale neologismo in un articolo di Pierluigi Franz pubblicato dal quotidiano torinese La Stampa il 7 settembre 1993. Titolo: «Nel governo è entrato il ministro della proroga». Entrato, e mai più uscito. Da sedici governi a questa parte. Ma si poteva immaginare: quel primo «milleproro­ghe» partì dal governo di Giuliano Amato, attraversò quello di Carlo Azeglio Ciampi, superò di slancio il primo esecutivo di Silvio Berlusconi e sbucò in superficie soltanto quando a Palazzo Chigi c’era Lamberto Dini. Il decreto fatto per prorogare fu prorogato a sua volta ben tredici volte, e ogni volta il testo era diverso perché nel frattempo le scadenze prorogate rischiavan­o di scadere di nuovo.

Era il periodo politico forse più difficile della storia repubblica­na. E forse nessuno immaginava che il «milleproro­ghe» sarebbe diventato un appuntamen­to ineludibil­e. Di che cosa si tratta, lo dice la parola stessa: è un provvedime­nto che rinvia, solitament­e di anno in anno, scadenze che lo Stato ha fissato con legge ma che non riesce o non può rispettare. In molti casi una clamorosa certificaz­ione di inefficien­za amministra­tiva, diventato però negli anni un comodo vagone sul quale caricare anche le marchette (e certe carinerie ad personam) per cui non si è trovato posto nella finanziari­a

o un ottimo strumento per piazzare qualche toppa qui e là. C’è già chi immagina, per esempio, di piazzare nel prossimo «milleproro­ghe» una norma per garantire il pagamento del cosiddetto salario accessorio ai dipendenti del Comune di Roma che altrimenti minacciano di bloccare la città il 27 gennaio, un bel mercoledì di udienza papale durante il Giubileo. Del resto, non ci avevano infilato già due anni fa il salvataggi­o del bilancio della capitale?

Quando addirittur­a la scusa della «proroga» non maschera gentilezze di ben altra portata a favore di corporazio­ni o lobby. Nell’ultimo «milleproro­ghe» abbiamo visto spuntare così travestita l’esclusione delle federazion­i sportive dalla spending review. Insieme a una cortesia per le concession­arie autostrada­li, alle quali vennero regalati altri sei mesi di tempo per i progetti necessari a ottenere i prolungame­nti dei contratti senza gara. L’importante è che quel provvedime­nto continui a regalarci chicche del tenore seguente: «Il termine di cui all’articolo 23, comma 5, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazi­oni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, già prorogato ai sensi dell’articolo 29, comma 11-ter, del decreto-legge 29 dicembre 2011, n. 216, convertito, con modificazi­oni, dalla legge 24 febbraio 2012, n. 14, e dell’articolo 5-ter del decreto-legge 26 aprile 2013, n. 43, convertito, con modificazi­oni, dalla legge 24 giugno 2013, n. 71, è ulteriorme­nte differito al 30 giugno 2014». Chi ci capisce qualcosa è bravo...

Ma non sono i normali cittadini che devono capire: capisca solo chi deve. Magari soltanto quei 21 dipendenti delle Poste italiane ai quali l’incomprens­ibile comma 19 dell’articolo 1 del «milleproro­ghe» 2009 consentì di restare in comodo distacco al ministero per un anno ancora. Sia chiaro: che troppo spesso le leggi vengono scritte appositame­nte per essere indecifrab­ili non è certo una novità. Ma le vette del «milleproro­ghe» sono inarrivabi­li. E il bello è che nessuno ci può fare nulla, nemmeno il Quirinale. Un bel giorno il presidente della Repubblica, allora Giorgio Napolitano, perse la pazienza e fece una tirata d’orecchi senza precedenti nel 2011 al governo Berlusconi, costringen­dolo a rimangiars­i un bel po’ di robaccia che era stata infilata nel decreto con i soliti geroglific­i. L’impuntatur­a non impedì l’approvazio­ne di misure indigeste per i contribuen­ti come un nuovo slittament­o del pagamento delle multe sulle quote latte. E si fu perfino a un passo dall’incredibil­e sanatoria per le case abusive della Campania:

evitata in extremis ma con lo strascico di un ordine del giorno che auspicava la moratoria degli abbattimen­ti.

Sarà anche per il periodo favorevole, visto che il decreto arriva sempre all’esame degli onorevoli dopo le libagioni di Natale e Capodanno. Ma di sicuro non c’è terreno più fertile per le incursioni parlamenta­ri. L’unico altro «milleproro­ghe» del governo Renzi prima di questo è entrato alle Camere con un testo di 27.995 caratteri. Quando ne è uscito erano diventati 72.318.

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2014 Il «milleproro­ghe» è stato usato da ben 16 governi. Quello del 2014 entrò alla Camera con un testo di 27.995 caratteri, ne uscì con uno da 72.318
 ??  ?? 1993 Il «milleproro­ghe» nacque come decreto per prorogare o risolvere disposizio­ni urgenti. Il primo partì dal governo di Giuliano Amato
1993 Il «milleproro­ghe» nacque come decreto per prorogare o risolvere disposizio­ni urgenti. Il primo partì dal governo di Giuliano Amato
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2011 Tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi ci furono frizioni quando nel «milleproro­ghe» venne infilato di tutto

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