A cena per conoscersi
Un gruppo di migranti ospitato in una casa di riposo Le reazioni di una piccola comunità: paura, sospetto, ma anche la solidarietà ritrovata. A tavola
«Quella a chi la porti, a li nire? ».
Il vecchio incrocia Angela con una teglia sospetta tra le mani, nel corridoio angusto della Casa di Riposo annessa all’ala più antica dell’Ospedale di Penne. L’ingresso è su un vicolo del quartiere Colle Castello, secondo la toponomastica ufficiale, ma noi residenti lo chiamiamo Santa Croce per via dell’omonima chiesa, o Corea come era stato soprannominato alcuni decenni fa per l’alta percentuale di voti al Partito Comunista. Allora c’era un orfanotrofio in questo edificio, oggi l’ospizio.
Angela è la responsabile. Lei e il vecchio che l’ha presa per un braccio in attesa di una risposta si trovano al piano terra, sul pavimento di linoleum consumato dalle sedie a rotelle. C’è poca luce intorno a loro, ma l’odore delle lasagne che sale dalla teglia è riconoscibile. In fondo, oltre l’ultima stanza, la scalinata che porta su, dove alloggiano i migranti.
Sono tutti giovani africani scampati al mare, di diverse nazionalità e numero variabile dai trenta ai trentacinque. Alcuni vengono e vanno dopo pochi giorni, mentre la maggior parte resterà qui per mesi, non si sa di preciso quanti, fino a dicembre o anche oltre. Incerto è dove andranno, poi, forse in Europa o forse respinti, se non gli verranno riconosciuti i requisiti per rimanere sulla sponda settentrionale del Mediterraneo. Una condizione necessaria è provenire da territori di guerra, imbarcarsi per fame non basta.
L’Asp (Azienda servizi alla persona) di Pescara li ha destinati a questa struttura che già a fatica conteneva gli anziani. Quando le hanno comunicato l’arrivo dei nuovi ospiti, Angela ha dovuto inventarsi degli spazi a norma di legge, un piano superiore tutto riservato a loro, devono stare separati dagli altri. In poche settimane sono stati ricavati alcuni bagni, pareti di cartongesso hanno suddiviso in camere una grande sala centrale. I pasti invece vengono preparati nella stessa cucina e poi serviti sopra.
Qualche vecchio che ancora deambula si è spinto in fondo al corridoio e, su per le scale, ha scoperto i ragazzi. È passato a raccontare la novità di stanza in stanza e nel soggiorno dove gli anziani si riuniscono a guardare la televisione. Se la sono presa con Angela, chi ha memoria si è ricordato le sue assenze degli ultimi tempi, la fretta, i ritardi a pranzo e cena. Di solito è lei che somministra di persona farmaci e cibo a tutti. Hanno avuto paura di perderla per colpa di li nire. Si sono anche preoccupati della propria incolumità.
«Mi puoi chiudere a chiave dentro la stanza? le ha domandato una donna prima di coricarsi, nel timore di possibili aggressioni notturne.
Anche i ragazzi erano spaventati all’inizio, non uscivano e nemmeno lasciavano il loro piano. Ma una mattina Lamin è sceso in cucina a prendere l’acqua e si è quasi scontrato con Lauretta che ormai vede solo sagome vaghe. È rimasto immobile e lei gli ha tastato il viso, per conoscerlo. Allora è sopraggiunta Maria, lo ha guardato e toccato anche lei, un po’ incredula.
«Quanto sei nero, figlio di Dio», ha detto ignorando l’altro Dio, padre della maggior parte dei migranti, tranne alcuni cristiani.
Lamin è scappato di sopra, senz’acqua. Ma è tornato dopo pranzo con altri, a riportare il carrello del cibo. Alcuni anziani si sono avvicinati, quasi a circondarli. Quelli affetti da malattie neurodegenerative non hanno nemmeno notato la differenza, gli hanno preso le mani e le hanno tenute strette, come usano fare. Ora le visite sono frequenti, Angela le permette e incoraggia. Sono attese soprattutto dai vecchi più soli.
Ogni tanto qualcuno deve andare via e passa a salutare i nonni transitori. Vengono benedetti in dialetto.
Le lingue di origine dei migranti sono inglese, francese, wolof. Un ragazzo è analfabeta, uno era giornalista in una radio africana. Angela ha attrezzato per tutti loro un’aula dove Giuseppe, insegnante di francese in pensione, offre lezioni di italiano. Poi sono arrivate le professoresse, Simona, Rita e Federica, la più giovane. E Daniele, Osvaldo, Anselmo. Ormai sono un corpo docente.
Dalla Sicilia, dove è adesso ospite di uno Sprar, Cosmos si sforza di ricordare quello che ha appreso qui e scrive messaggi nella lingua della destinataria. «Io sarò molto felice di vivere in Penne da mamma Angela il mio solo madre che ho in Italia» spera Cosmos e più avanti, realisticamente: «Ma questo popolo non siamo pronti adesso per noi».
Di giorno passano gran parte del tempo dentro la Casa di Riposo. Escono la sera, con i pantaloni corti e le infradito di plastica. Girano per il paese o anche solo nel quartiere, si siedono sulle panchine fuori Porta Teramo. Allora alcuni residenti non ci si siedono più. Adocchiano le ragazze, dicono certi. E se portassero malattie infettive? Se fossero pusher o stupratori? Lo Stato gli dà trenta euro al giorno, mentre ai disoccupati nostrani niente. Ne arriveranno altri duecento. No, trecento, e sono già tra noi. Ma dove? Giù all’Oasi del Wwf. E poi hanno tutti il telefonino. Ma è vero che gli vogliono fare una festa, a li nire? Stanno organizzando una cena. Ma chi, quelli della Caritas? Proprio loro, insieme ai comunisti e a qualche cane sciolto.
Partecipo all’organizzazione della cena in qualità di cane sciolto. Pensavamo di disporre tavoli e sedie all’aperto, in piazzetta Santa Croce, come nelle feste di quartiere a fine agosto. Ma gli abitanti sono divisi, la maggioranza non è favorevole a una iniziativa di accoglienza. Su Facebook cominciano ad apparire commenti razzisti e una di noi viene offesa a brutto muso in un bar senza che nessuno intervenga a difenderla.
Abbiamo paura per i ragazzi, Angela teme che qualche scalmanato possa venire a insultarli se li esponiamo in un luogo aperto. Ma ripiegare in un interno ci pesa, chiuderci è il contrario di quello che vogliamo. La decisione viene messa ai voti e solo in tre restiamo ostinati per la pubblica piazza.
Qualcuno propone la sede dell’Associazione Alpini, al piano terra del Palazzo Margarita d’Austria, facciata del XVI secolo e cortiletto con loggiato rinascimentale. L’edificio è a due passi dalla Casa di Riposo e ospita da decenni le suore della Sacra Famiglia, bisogna chiedere il permesso anche a loro. Ho qualche dubbio che ce lo diano, vista l’aria che si respira in paese, e invece dicono tutti di sì, alpini e suore. Parteciperanno alla serata con una loro rappresentanza, anche se non sarà facile per le penne nere sedersi a tavola senza Montepulciano d’Abruzzo e salsicce.
Il menu prevede sia piatti africani che locali. Nella cucina dell’ospizio i migranti preparano domoda, una specie di polenta condita con pesce e salsa di verdure, e mano, riso con sugo al pomodoro, verza e burro di arachidi.