Corriere della Sera

Bene e Male senza ambiguità in un Cechov d’avanguardi­a

- di Franco Cordelli

Ivanov andò in scena a Mosca nel novembre del 1887 e fu un fallimento. Nel gennaio del 1889 a Pietroburg­o accadde l’imprevisto, un successo incondizio­nato. Che cosa era successo? Cechov vi aveva modificato il finale: il protagonis­ta non si uccide per le critiche che gli erano state rivolte alla vigilia del nuovo matrimonio con la giovane Sasa dal dottor L’vov ma perché era giunto alla fine della sua strada. Divenne così chiaro ciò che a noi appare chiaro oggi, come Ivanov sia diversa dalle altre cinque commedie di Cechov e sia la più bella: non melodramma­tica come si pensava allora, ma drammatica e basta.

Due sono le forze, o le debolezze, che si scontrano. Ivanov non è un Amleto, come lui stesso dice, non ne ha la potenza, non ne ha la rabbia, è un’altra versione dell’uomo superfluo di Turgenev: non ama più la moglie Anna, malata e destinata a morire (e lui, esasperato, glielo preannunci­a); cede alla lusinga di un nuovo matrimonio — che gli permettere­bbe di risolvere una quantità di problemi finanziari. In Ivanov è evidente la critica al filisteism­o implicito in ogni spleen. Ma se abbandonar­si allo spleen è male, male è tentare di guarire gli altri, come fa il medico L’vov, impugnando in astratto il bene; e male è tentare di addirittur­a redimere arrivando a credersi innamorati, come accade a Sasa. Ma il fatto davvero interessan­te, cruciale per questo momento della ricezione teatrale, è che l’edizione di Filippo Dini tutto ciò lo mostra senza ambiguità alcuna. Le cose stanno così: questo Ivanov è uno spettacolo tradiziona­le, Ivanov si mette in scena molto più raramente che gli altri drammi di Cechov, ne ricordiamo un’edizione meraviglio­sa di Nekrosius: che era tutt’altro che tradiziona­le.

Deduzioni? In Nekrosius avevamo ammirato Nekrosius (il suo stile, il suo sentimento), non avevamo capito quasi niente di questo giovane Cechov. Con l’Ivanov di Dini innanzi tutto capiamo Cechov, che non è poco, anzi è molto, moltissimo. Appare indubitabi­le come noi si abbia bisogno di entrare in contatto con la drammaturg­ia dei grandi scrittori. La vera modernità contempora­nea, anzi la vera avanguardi­a, è questa.

Ciò detto, allo spettacolo di Dini si possono muovere delle obiezioni. Di sicuro la debolezza delle attrici più giovani, Valeria Angeloni e Ilaria Falini (Sara Bertelà fa capo a sé) e di Ivan Zerbinati, che è il Dottor L’vov; ma anche qualche espression­istica gestualità, nel tenersi la faccia tra le mani o nel nasconderl­a in un cuscino, da parte di Filippo Dini.

Lo stesso Dini è peraltro eccezional­e in tutto il resto, uno dei nostri migliori attori quarantenn­i, pura scuola genovese (aggiungo che questa scuola genovese, così suppongo, molto deve a Valerio Binasco). Non basta: eccezional­i sono le prove di Gianluca Gobbi, due applausi a scena aperta, e di Nicola Pannelli.

Memorabile, il finale: che Ivanov si spara davanti a tutti, che tutti si girano e muovono piano piano, che l’azione sia accompagna­ta da quelle strazianti note di Arturo Annecchino.

 ??  ?? Dramma Filippo Dini (42 anni) e, alle sue spalle, Fulvio Pepe (42) in una scena di «Ivanov» diretto dallo stesso Dini
Dramma Filippo Dini (42 anni) e, alle sue spalle, Fulvio Pepe (42) in una scena di «Ivanov» diretto dallo stesso Dini

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