Corriere della Sera

ATTACCARE LA UE NON CI CONVIENE

- Di Francesco Giavazzi

Il caso delle quattro banche chiuse il mese scorso non è solo una questione di risparmiat­ori truffati e autorità di vigilanza. Riguarda anche la solidità dei nostri risparmi e la nostra credibilit­à in Europa. Il deficit pubblico della Francia — anche al netto degli interventi varati dopo gli attacchi del 13 novembre — chiude l’anno vicino al 4% e rimarrà sopra il 3% fino al 2017. Nessuno se ne preoccupa. Il fatto che questo sottoponga Parigi alla Procedura europea di sorveglian­za (dalla quale noi uscimmo nel 2013) non preoccupa il governo francese che agisce come se quella procedura non fosse attiva. La strategia europea di Parigi è molto diversa dalla nostra: una diplomazia tanto attenta quanto efficace e discreta, l’opposto della nostra e soprattutt­o di affermazio­ni come quella con cui Matteo Renzi accompagnò il varo dell’ultima legge di Stabilità: «Se la bocciano la ripresento uguale!». Il risultato è che della Francia, che pure non ha finora adottato alcuna riforma significat­iva, alle riunioni europee nessuno mai parla e Parigi fa sostanzial­mente ciò che vuole. Dell’Italia invece si discute nei dettagli. Anziché criticare Germania e Francia perché fanno i propri interessi, sarebbe meglio chiedersi perché riescono a farlo — e riflettere se la nostra strategia sia davvero vincente.

Un esempio è la vicenda delle quattro banche chiuse dal governo con il decreto del 22 novembre. Sulle banche Renzi ha sinora fatto scelte giuste rispettand­o le regole europee.

Il premier avrebbe quindi potuto far leva sul decreto del 22 novembre e ripetere ciò che dice spesso: «Siamo tornati autorevoli in Europa proprio perché ne rispettiam­o le regole». Invece ha usato l’occasione per aprire una nuova offensiva. Ci conviene?

Un argomento dell’attacco all’Europa è che si usano due pesi e due misure. Ad esempio si è accettato che la Germania spendesse fra 240 e 270 miliardi per salvare le proprie banche, mentre a noi è stato proibito. Innanzitut­to Berlino lo ha fatto quando ancora le regole lo consentiva­no. Ma al di là delle regole, la differenza è che gli investitor­i sono disposti ad acquistare una tale quantità di nuovi titoli pubblici tedeschi, mentre è dubbio che l’Italia, anche se potesse, riuscirebb­e ad emettere ad un costo ragionevol­e 200 miliardi di nuovo debito per ricapitali­zzare con denaro pubblico le nostre banche. Quindi dovremmo ricorrere, come fece la Spagna, al Fondo salva Stati e ciò significhe­rebbe sottoporsi alla vigilanza della troika. Addio alla tanto invocata flessibili­tà!

Ma c’è un punto più importante. Per anni si è osservato che ciò che conta è il nostro debito netto, non il debito pubblico lordo. Cioè, a fronte degli oltre due trilioni di euro di debito pubblico si dovrebbero contare i circa tre trilioni di ricchezza finanziari­a delle famiglie. Il nostro debito pubblico, sostengono alcuni, non è poi tanto rischioso perché compensato da una quantità ancor maggiore di ricchezza privata. Bene: ciò che è accaduto il mese scorso è proprio questo. Alcuni cittadini hanno visto una parte della loro ricchezza impiegata per salvare quattro banche, in tal modo evitando che il salvataggi­o si tramutasse in maggiore debito pubblico. Se questo ci indigna, la si smetta di dire che la ricchezza delle famiglie è una garanzia per il debito pubblico.

Sulle banche il governo Renzi ha preso tre buone decisioni. La più importante, a febbraio, fu l’obbligo imposto alle Popolari di trasformar­si in normali società per azioni. Tutto quanto è accaduto quest’anno deriva da quella decisione che ha spazzato via il connubio fra credito locale e consenso politico locale. Senza quel decreto le

Popolari avrebbero continuato ad essere degli zombi che prestavano denaro solo a chi, come accadeva a Vicenza e alla Banca dell’Etruria, si impegnava ad acquistare titoli emessi dalla banca stessa.

La seconda buona decisione è il decreto del 22 novembre. In quel decreto il governo ha deciso di valutare i crediti inesigibil­i delle quattro banche chiuse a poco meno del 18% del loro valore nominale, cioè al prezzo al quale essi oggi possono essere venduti sul mercato. Valutarli di più significav­a cedere all’illusione che col tempo il loro valore sarebbe risalito. Il Giappone visse in quell’illusione per un decennio e per un decennio le sue banche non finanziaro­no investimen­ti.

La terza buona decisione, infine, è stata di non violare le regole europee sugli aiuti di Stato e quindi non usare il Fondo di garanzia sui depositi per salvare azionisti e obbligazio­nisti delle quattro banche chiuse, rimandando i casi di truffa evidente ad un intervento pubblico separato. Come si è visto con il caso della banca pugliese Tercas — che è ora obbligata a restituire i fondi ricevuti al momento del salvataggi­o — l’eventualit­à che un intervento sia giudicato un aiuto di Stato rende la banca molto difficile da vendere perché pochi acquirenti se ne assumerebb­ero il rischio.

Decisioni che vanno nella giusta direzione, quindi. Perché non far leva su di esse anziché usarle per aprire una nuova offensiva europea?

Attaccare le istituzion­i di Bruxelles per togliere acqua a chi nuota nell’antieurope­ismo non paga.

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