Tra i fedeli in Siria sequestrati dall’Isis
Tra i cristiani assiri minacciati dall’Isis «Piango mio nipote in mano ai jihadisti»
«Piango per mio nipote ostaggio degli jihadisti»: viaggio tra i cristiani assiri minacciati dall’Isis.
Stato siriano, i simboli del regime abbondano, comprese le statue intatte di Bashar Assad e suo padre Hafez, fondatore dello Stato baathista.
Il piccolo presidio di soldati leali a Damasco fa base proprio nei quartieri cristiani. E i prelati non lesinano critiche agli «occidentali, con gli americani in testa, che hanno sposato la causa di Isis per abbattere il nostro presidente » . Non mancano neppure accuse dirette contro Paolo Dall’Oglio, il gesuita italiano rapito in Siria (pare da Isis) nell’estate 2013 noto per le simpatie nei confronti del movimento di opposizione al regime. «Padre Paolo si comportò da nemico dello Stato e nostro. Non aveva capito dove stanno gli interessi dei cristiani in questo Paese», aggiungono alla chiesa armena.
Tutto diverso dunque dai cristiani in Iraq, che, soprattutto dalle avanzate di Isis nel giugno 2014, vedono in grande maggioranza il governo dell’enclave curda assieme ai guerriglieri peshmerga come loro salvatori e comunque evitano di condannarli per le persecuzioni del passato. Le differenze tra le due comunità nei confronti dello Stato centrale sono così sintetizzabili: i cristiani iracheni erano protetti dall’ex dittatura di Saddam Hussein, mentre quelli siriani sono parte integrante del regime, compresi i servizi di sicurezza.
Per ritrovare una situazione alla «irachena» tra i cristiani in Siria è però sufficiente andare nei villaggi in prima linea di fronte alle milizie del Califfato. In quello di Ras al Ayn (il nome curdo è Sarikan), nelle zone ora controllate dai combattenti curdi a sud di Kobane, i muri della chiesa siriaca sono tempestati di proiettili. I preti con gran parte della comunità, specialmente i giovani, sono emigrati all’estero negli ultimi due anni. Restano circa 150 persone quasi tutte anziane. «Ormai siamo l’ombra di ciò che eravamo. Una volta c’erano scuole, gruppi sportivi, boyscout. Ora sono rimaste 57 famiglie assire, 39 siriano-ortodosse, 18 cattoliche e 8 armene. Quasi tutte composte solo dai vecchi genitori e qualche nonno. I figli sono partiti», spiega Abdhulhad, un settantenne che si occupa di mantenere l’unica basilica aperta, danneggiata dai proiettili. «La messa di Natale è stata celebrata da un prete venuto da fuori. Una tristezza. La chiesa è stata attaccata più volte da Isis, ma non solo loro. Al Nusra e le altre milizie sunnite possono rivelarsi anche peggio: sparano, devastano, rubano, sequestrano a scopo di riscatto. Se non ci fossero i curdi a difenderci probabilmente anche noi ora saremmo tutti rapiti», spiega.
A Tell Tamr proprio le trattative per la liberazione degli ostaggi rendono i cristiani estremamente restii a parlare con i giornalisti: «Ne va della vita dei nostri confratelli. Dovete capire». Le devastazioni provocate due settimane fa da tre potenti auto-bomba, scoppiate contemporaneamente causando oltre 30 morti, spingono i civili a restare abbottonati. «Abbiamo paura. Isis è qui alle nostre porte», dicono le milizie miste composte da volontari cristiani, curdi e arabi delle tribù locali ai posti di blocco e vicino alla chiesa.
Tanti tra i cristiani originari sono partiti. Le loro case sono adesso abitate da quelli fuggiti dai quattro o cinque villaggi nella zona del fiume Khabur, una trentina di chilometri da qui, dove Isis ha effettuato larga parte dei rapimenti. E’ Kurish Talia, 77enne del villaggio di Tel Shamiran, a raccontarci la sua odissea di ostaggio di Isis per nove mesi. «C’era stata battaglia la notte che ci hanno preso. Le nostre unità di autodifesa nel villaggio sono state soverchiate. Io sono stato rapito con altri 110 cristiani. Per sette mesi ci hanno tenuto in uno stanzone nel villaggio di Shaddade. C’erano donne, vecchi, tanti bambini. Siamo stati nutriti con patate e verdura. Volevano che ci convertissimo all’Islam. Nessuno ha accettato. Credo ci siano stati dei morti. Nell’ultimo mese e mezzo siamo stati spostati a Raqqa (la capitale di Isis ndr). Ogni sera arrivavano i bombardamenti americani ed era il caos, anche se c’erano acqua ed elettricità. Poi sono iniziate le liberazioni dei cristiani. Non so quanto sia stato pagato e come. Un giorno mi hanno messo su un camioncino e sono stato condotto alle linee curde. Però mio nipote 19enne resta ostaggio. E piango per lui. Non siamo riusciti a liberarlo per Natale».