Dalle armi alla finanza Il cambio di strategia del Cremlino
(Reuters)
C’è un vulcano alla periferia dell’Europa che appare spento. Ma che è soltanto dormiente. Stiamo parlando della crisi russo-ucraina, che dopo una recrudescenza all’inizio dell’anno è sembrata placarsi nel corso del 2015, fino a consentire che l’attenzione del mondo si rivolgesse altrove, al conflitto siriano e all’intervento militare russo a fianco del macellaio di Damasco, Bashar el Assad.
Tra gennaio e febbraio i ripetuti assalti nel Donbass dei ribelli appoggiati da Mosca avevano condotto le parti al tavolo della trattativa, sfociata negli accordi di Minsk 2: un piano che prevedeva la graduale reintegrazione delle regioni separatiste nel resto dell’Ucraina dopo un periodo temporaneo di autogoverno.
Ma l’applicazione di quegli accordi è andata a rilento e dalla guerra aperta si è passati a un conflitto congelato. Tuttavia il mantenimento dello status quo è apparso presto inaccettabile al Cremlino: il Donbass, la vagheggiata Novorossiya o Nuova Russia, non poteva rappresentare un’entità statale sostenibile se non a prezzo di un aggravio a lungo termine delle già scarse risorse di Mosca.
D’altra parte la reintegrazione delle aree ribelli in qualità di regioni semiautonome in grado di fornire al Cremlino un diritto di veto sulla politica ucraina (il vero obiettivo di Vladimir Putin) era stata stoppata da Kiev. In più, le sanzioni economiche applicate da Europa e America affondavano sempre più i denti in una già fragilizzata economia russa: di qui l’esigenza di Mosca di cercare una de-escalation del conflitto, anche a fronte di una imprevista compattezza diplomatica dello schieramento occidentale, sotto la guida ferma della Cancelliera Angela Merkel.
Un gesto significativo di distensione è stato l’annullamento delle elezioni previste a ottobre nei territori separatisti, un voto che avrebbe fatto deragliare gli sforzi negoziali dei mesi precedenti: una decisione chiaramente presa a Mosca e telegrafata alle marionette del Cremlino nel Donbass. Ma il punto centrale del contenzioso rimaneva intatto: la richiesta russa che alle regioni dell’Ucraina orientale fosse garantita un’ampia autonomia, anche nel campo della politica estera, mentre per Kiev non è possibile andare oltre un autogoverno sugli affari regionali e culturali.
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