«POPULISMO DI GOVERNO» UNA LETTURA SBAGLIATA DELLA NOSTRA POLITICA
Nella democrazia di oggi le vecchie narrazioni ideologiche e le modalità organizzative del passato sono destinate alla sconfitta
M i chiedo che cosa possa intuire del contenuto del libro chi legge il titolo dell’ultimo Marco Revelli, Dentro e Contro, Laterza. È vero che il sottotitolo — «quando il populismo è di governo» — lo mette sulla pista, specie se già conosce l’autore: escluso che si tratti di un lavoro distaccato e accademico sulle forme personalizzate e populistiche che ha preso quasi ovunque la lotta politica in Europa — altrove queste forme le aveva assunte da tempo — non è difficile immaginare che si tratti di un attacco all’arma bianca contro il capo dell’attuale governo italiano e insieme segretario del Partito democratico, Matteo Renzi. E di questo infatti si tratta, un pamphlet partigiano scritto da un punto di vista di estrema sinistra.
Chi condivide questo punto di vista troverà nel libro, esposte in modo brillante — nello stile e con la sostanza de Il Fatto Quotidiano — tutte le accuse che questa parte politica rivolge contro Renzi. Accuse che riguardano sia la fase della «resistibile ascesa» del premier-segretario e dunque rivolte, oltre che contro di lui, contro chi non l’ha impedita: contro l’insipienza di chi gli era e gli è contrario nel partito e contro la connivenza delle supreme istituzioni, al fine di facilitarlo nella sua scalata. Sia la fase del Renzi di governo, le accuse contro le riforme che ha promosso e le politiche che ha perseguito. Non troverà invece un’analisi ragionata e comparata delle sue modalità di conquistare la maggioranza nel suo partito e un ampio consenso nel Paese, quello che l’ha condotto oltre il 40% nelle elezioni europee del 2014: per quali aspetti esse differiscono da quelle adottate dai leader democratici di altri Paesi? E non troverà un’analisi — di nuovo, ragionata e comparata — delle riforme che in parte ha fatto o sta tentando di fare: che cosa fanno di radicalmente diverso i capi dei governi democratici di altri Paesi? E soprattutto, ammesso che sia desiderabile, che cosa potrebbero fare nelle attuali circostanze europee?
Marco Revelli è professore di scienze politiche e conosce le profonde trasformazioni che hanno attraversato negli ultimi vent’anni le modalità di conquista del consenso democratico: possono non piacerci, possiamo rimpiangere la vecchia democrazia dei partiti, ma nella democrazia personalizzata e televisiva di oggi, confuse o profondamente trasformate le vecchie fratture di classe, inutilizzabili le vecchie narrazioni ideologiche, le modalità organizzative e comunicative del passato sono destinate alla sconfitta: ha fatto male Renzi, per cercare la vittoria, a rivoluzionare le forme di comunicazione politica del suo partito, a imperniare il suo messaggio sulla «rottamazione» e sul suo carisma personale? È populismo questo? Se sì, allora sono populisti gran parte dei leader democratici europei. E — domanda ancor più importante — sono populiste le politiche che ha adottato in seguito, quando è diventato presidente del Consiglio?
Il concetto di «populismo» è difficile da definire e la definizione che ne dà Revelli nel Prologo del suo saggio — proprio per includervi il «populismo di governo» di Renzi — alle difficoltà che ci sono aggiunge una confusione evitabile: se Syriza, Podemos, il Front National, la Lega, il Movimento 5 Stelle sono populisti, come gran parte degli studiosi affermano, allora il Pd di Renzi non lo è, perché sostiene politiche opposte alle loro, politiche compatibili con i vincoli europei e accettabili dall’Unione. Uno dei pochi caratteri comuni a tutti i populismi è invece quello di proporre politiche molto popolari allo scopo di ottenere un facile consenso elettorale, politiche all’apparenza favorevoli alla gran massa della popolazione, ma che poi non possono essere sostenute dal reddito del Paese e sono incompatibili con i vincoli europei o internazionali. Politiche che, se attuate, condurrebbero a disastri, per evitare i quali dovrebbero rapidamente essere revocate: insomma quello che è successo in Grecia. Naturalmente questa valutazione può essere contestata, ma allora bisogna farlo con buoni argomenti, ad esempio dimostrando che un’uscita dall’euro non sarebbe così traumatica per un grande Paese come il nostro e le difficoltà iniziali sarebbero rapidamente superate da un periodo successivo di forte crescita. Di questa dimostrazione nel libro non c’è neppure il tentativo.
Lasciando da parte la confusione sul concetto di populismo e di conseguenza l’accusa a Renzi di «populismo di governo», molto più semplicemente si può accusare Renzi di non fare le politiche di sinistra che piacciono a Revelli o a quelli che la pensano come lui. Il che è vero, naturalmente, ma Renzi non ha mai detto di volerle fare. Ha ottenuto il consenso del suo partito e sta cercando il consenso del Paese su un programma del tutto diverso — liberaldemocratico, di centrosinistra, o come altro si voglia definire — sostenendo che le riforme da lui proposte avvieranno l’Italia verso una fase di maggiore governabilità, di buona efficienza amministrativa, di crescita più forte e meglio distribuita. E qui di critiche ne possono fioccare a iosa, e su molti aspetti delle riforme renziane: lo scostamento tra gli obiettivi dichiarati e i risultati sinora ottenuti sta infatti raggiungendo un’ampiezza preoccupante. Ma si tratterebbe di critiche che, per orientamento e natura, sarebbero molto diverse da quelle che gli rivolge Revelli.