Giuseppe Bevilacqua, un diario e molti altri romanzi possibili
«VUn pensiero forte, segnato dall’esigenza di cambiare il mondo, ma realisticamente Più che analizzare ritrae. E sa raccontare le persone senza sottoporle ai raggi X
asto deposito di romanzi ancora possibili». Così Maria Fancelli — la cui grandezza e finezza di interprete crescono sempre di più, nella loro simbiosi di rigore storico-filologico e affettuosa e mordace pietas verso la vita, esempio di un umanesimo sempre più raro — definisce le Pagine di un lungo diario di Giuseppe Bevilacqua, da lei curate. Più che di romanzi, si potrebbe parlare di storie, di epica ininterrotta che fluisce sanguigna dalla vita e riconfluisce nel suo scorrere.
Di romanzi veri e propri, Giuseppe Bevilacqua, straordinario narratore orale, ne ha scritti uno solo, L’alzata di Meissen, mentre Villa Gradenigo e pochi altri brevi racconti sparsi appartengono piuttosto al filone dell’oralità epica, fortemente legata, nella sua struttura profonda, al dialetto veneto, a una musica del vivere e del dire per la quale anche la morte non è uno scandalo e siede ai tavoli d’osteria dove si gioca a carte.
Grande studioso di germanistica, Bevilacqua ha trovato una sua autentica, possente voce critica nello studio — e nelle felicissime versioni — dei poeti della notte, dell’indicibile, creatori e vittime — come Celan — di quella poesia che balena per un attimo per poi spegnersi forse per sempre. Ma la sua visione del mondo, affermata talora con brusca prepotenza, è ben diversa. È quella del grande materialismo classico, la classicità che fa la sua doverosa riverenza all’imperscrutabile e poi non ci pensa più, proprio perché è imperscrutabile. Pure in questo senso, la sua interpretazione del Romanticismo — e della sua continuità/trasformazione nella cultura contemporanea — è illuminante e originale, aiuta a comprendere ciò che continua a succederci. E dunque gli autori del cuore di Bevilacqua non sono solo i lirici infranti dalla loro stessa liricità bensì anche i grandi narratori epici capaci, come Fontane, di integrare pure ciò che ad essi personalmente non piace, ma che avvertono come (magari sgradevolmente) necessario.
La sua interpretazione di una delle più discusse e ardue poe- sie di Hölderlin, Friedensfeier (Festa della pace) muove da particolari realistici apparentemente prosaici, nella convinzione che lo Spirito autentico si nutra, a differenza di tanto vacuo spiritualeggiare, della concreta realtà materiale. Un suo saggio pacatamente oggettivo, anche se fortemente critico nei confronti di Benjamin — geniale e affascinante autore divenuto icona e ridimensionato in quanto tale — è stato pressoché ignorato, perché nessuno vuole mettere in discussione le figure dominanti, salvo poi prenderle a sassate quando la loro frana è già cominciata.
La visione del mondo di Giuseppe Bevilacqua è un pensiero forte, come lo è ogni pensiero degno di questo nome; profondamente segnato dal marxismo e dall’esigenza brechtiana di cambiare il mondo, ma realisticamente, senza alcuna malattia infantile di estremismo rivoluzionario e con un profondo disprezzo per il radicalismo intellettuale da salotto. Anche in questi diari, osserva Maria Fancelli, la sua visione è segnata dalla «centralità dei legami famigliari, dal bisogno di appartenenza contro l’erranza». Una visione non ideologizzata, ma vissuta nella persona. L’autore conosce bene la «crisi della funzione simbolica del padre nella società moderna e l’interruzione di valori della catena generazionale», scrive Maria Fancelli, ma il suo sentimento e il suo atteggiamento, la sua inconfondibile simbiosi di piglio autoritario e intensa capacità d’affetto non ne sono intaccati né, men che meno, compiaciuti. Sanguigno e malinconico, amico su cui si può contare e spesso polemicamente iracondo, non riesce, come non riesco io, a capire perché la discussione su un libro debba essere definita «un evento» e prende giustamente cappello quando ad esempio sente dire che «il silenzio della parola è la parola del silenzio» o altre trionfanti banalità travestite da profondità.
A quale genere letterario e a quale corda dell’autore appartengono questi Diari? Le origini di tale genere possono essere molto diverse. C’è il diario politico, spesso preziosissimo, che può illuminare il retro del foglio in cui stanno scritti l’ordine del giorno e il menu della Storia. C’è il diario quale introspezione — autocritica o giustificatrice — del proprio Io, nell’illusoria e presuntuosa speranza di afferrarlo o nella pretesa narcisista o esibizionista di metterlo a nudo. C’è il diario come finzione letteraria o come confessione e riflessione che sfociano imprevedibilmente in quest’ultima. Ci sono il diario quale cantiere e brogliaccio di lavoro, il diario come vendetta e risarcimento di ciò che è accaduto, il diario che guarda dentro se stessi e quello che guarda fuori.
Quello di Bevilacqua appartiene soprattutto a quest’ultima categoria. Maria Fancelli ricorda come Luigi Baldacci riconoscesse all’autore la vocazione «a lasciare i personaggi al segreto dei loro comportamenti». Pure in queste pagine, Bevilacqua ritrae più che analizzare; racconta fatti, paesaggi, soprattutto opere d’arte, persone senza sottoporle ai raggi X. A prima vista questo Diario appare soprattutto funzionale, una registrazione di ciò che si è vissuto non per condurre una manzoniana guerra illustre contro il Tempo ma per far ordine, sistemare, fermare impressioni ed esperienze che gli anni tenderebbero a sbiadire o a cancellare, metterli in cassetti ritrovabili ed apribili. Lo stile classico ama l’ordine, il bilancio. Una cronaca precisa e oggettiva in cui pure — ma raramente — balenano, dolorosi struggenti ridotti pudicamente all’osso, squarci di sentimenti di irredimibile inquietudine. Ma il mondo è là e il diario lo registra, lasciando poco spazio all’animo con cui l’autore lo ha vissuto. Chi lo conosce da una vita ritrova sì molte cose del suo mondo e del suo modo di essere, ma non troppe, e non troppo marcate. Non trova, o molto meno di quanto si aspetti, vicende e persone che sa (o crede di sapere) hanno una parte rilevante nella sua esistenza. Lui è là, nel segreto del suo comportamento, lontano e bruscamente autosufficiente.
I personaggi che attraversano queste pagine non hanno segreti. Sono semplicemente là, come gli alberi, come le opere d’arte descritte con dovizia, come i congressi di germanistica e i loro protagonisti che non hanno segreti da svelare o i cui segreti potrebbero destare poco interesse. C’è il mondo, oggettivo e concreto, mai prevaricato da una sentimentalità soggettiva ma talvolta lasciato perdere con ruvidezza, tolto di mezzo col fastidio del gran signore. Un diario scritto per sé — non per effusione sentimentale del proprio Io, ma per il piacere, il loisir
del gran signore di un tempo, figura di un ancien régime esistenziale in cui si formano la conoscenza raffinata e profonda della musica o della pittura, l’arte culinaria di cucinar bene e mangiar bene, l’istintiva e sanguigna socievolezza, così amabile e seduttrice, e la burbera impazienza del padrone di casa che non ammette obiezioni.
Tra le aule accademiche, i grandi pranzi, le tenere e trepide relazioni famigliari, le ore dell’amicizia e dell’eros, si insinua, talora ipocondriaco, il pensiero della morte o il rito sempre più ripetuto degli addii. Ma non è vero che, come scrive Bevilacqua, uno scrittore abbia col pensiero della morte un rapporto più intenso che l’uomo comune — sia perché non è chiaro chi sia questo uomo comune sia perché lo scrittore, come Thomas Mann sapeva bene, è invece spesso colui che lo profana nell’ostentato abuso letterario o lo impoverisce concentrandosi solo sulla propria morte. Ma è vero che sono spesso gli scrittori a far capire, come l’autore di questo diario, la convivenza quotidiana — tutt’altro che lugubre o piagnona, anzi sensualmente robusta — col pensiero della morte.