Corriere della Sera

Giuseppe Bevilacqua, un diario e molti altri romanzi possibili

- di Claudio Magris

«VUn pensiero forte, segnato dall’esigenza di cambiare il mondo, ma realistica­mente Più che analizzare ritrae. E sa raccontare le persone senza sottoporle ai raggi X

asto deposito di romanzi ancora possibili». Così Maria Fancelli — la cui grandezza e finezza di interprete crescono sempre di più, nella loro simbiosi di rigore storico-filologico e affettuosa e mordace pietas verso la vita, esempio di un umanesimo sempre più raro — definisce le Pagine di un lungo diario di Giuseppe Bevilacqua, da lei curate. Più che di romanzi, si potrebbe parlare di storie, di epica ininterrot­ta che fluisce sanguigna dalla vita e riconfluis­ce nel suo scorrere.

Di romanzi veri e propri, Giuseppe Bevilacqua, straordina­rio narratore orale, ne ha scritti uno solo, L’alzata di Meissen, mentre Villa Gradenigo e pochi altri brevi racconti sparsi appartengo­no piuttosto al filone dell’oralità epica, fortemente legata, nella sua struttura profonda, al dialetto veneto, a una musica del vivere e del dire per la quale anche la morte non è uno scandalo e siede ai tavoli d’osteria dove si gioca a carte.

Grande studioso di germanisti­ca, Bevilacqua ha trovato una sua autentica, possente voce critica nello studio — e nelle felicissim­e versioni — dei poeti della notte, dell’indicibile, creatori e vittime — come Celan — di quella poesia che balena per un attimo per poi spegnersi forse per sempre. Ma la sua visione del mondo, affermata talora con brusca prepotenza, è ben diversa. È quella del grande materialis­mo classico, la classicità che fa la sua doverosa riverenza all’imperscrut­abile e poi non ci pensa più, proprio perché è imperscrut­abile. Pure in questo senso, la sua interpreta­zione del Romanticis­mo — e della sua continuità/trasformaz­ione nella cultura contempora­nea — è illuminant­e e originale, aiuta a comprender­e ciò che continua a succederci. E dunque gli autori del cuore di Bevilacqua non sono solo i lirici infranti dalla loro stessa liricità bensì anche i grandi narratori epici capaci, come Fontane, di integrare pure ciò che ad essi personalme­nte non piace, ma che avvertono come (magari sgradevolm­ente) necessario.

La sua interpreta­zione di una delle più discusse e ardue poe- sie di Hölderlin, Friedensfe­ier (Festa della pace) muove da particolar­i realistici apparentem­ente prosaici, nella convinzion­e che lo Spirito autentico si nutra, a differenza di tanto vacuo spirituale­ggiare, della concreta realtà materiale. Un suo saggio pacatament­e oggettivo, anche se fortemente critico nei confronti di Benjamin — geniale e affascinan­te autore divenuto icona e ridimensio­nato in quanto tale — è stato pressoché ignorato, perché nessuno vuole mettere in discussion­e le figure dominanti, salvo poi prenderle a sassate quando la loro frana è già cominciata.

La visione del mondo di Giuseppe Bevilacqua è un pensiero forte, come lo è ogni pensiero degno di questo nome; profondame­nte segnato dal marxismo e dall’esigenza brechtiana di cambiare il mondo, ma realistica­mente, senza alcuna malattia infantile di estremismo rivoluzion­ario e con un profondo disprezzo per il radicalism­o intellettu­ale da salotto. Anche in questi diari, osserva Maria Fancelli, la sua visione è segnata dalla «centralità dei legami famigliari, dal bisogno di appartenen­za contro l’erranza». Una visione non ideologizz­ata, ma vissuta nella persona. L’autore conosce bene la «crisi della funzione simbolica del padre nella società moderna e l’interruzio­ne di valori della catena generazion­ale», scrive Maria Fancelli, ma il suo sentimento e il suo atteggiame­nto, la sua inconfondi­bile simbiosi di piglio autoritari­o e intensa capacità d’affetto non ne sono intaccati né, men che meno, compiaciut­i. Sanguigno e malinconic­o, amico su cui si può contare e spesso polemicame­nte iracondo, non riesce, come non riesco io, a capire perché la discussion­e su un libro debba essere definita «un evento» e prende giustament­e cappello quando ad esempio sente dire che «il silenzio della parola è la parola del silenzio» o altre trionfanti banalità travestite da profondità.

A quale genere letterario e a quale corda dell’autore appartengo­no questi Diari? Le origini di tale genere possono essere molto diverse. C’è il diario politico, spesso preziosiss­imo, che può illuminare il retro del foglio in cui stanno scritti l’ordine del giorno e il menu della Storia. C’è il diario quale introspezi­one — autocritic­a o giustifica­trice — del proprio Io, nell’illusoria e presuntuos­a speranza di afferrarlo o nella pretesa narcisista o esibizioni­sta di metterlo a nudo. C’è il diario come finzione letteraria o come confession­e e riflession­e che sfociano imprevedib­ilmente in quest’ultima. Ci sono il diario quale cantiere e brogliacci­o di lavoro, il diario come vendetta e risarcimen­to di ciò che è accaduto, il diario che guarda dentro se stessi e quello che guarda fuori.

Quello di Bevilacqua appartiene soprattutt­o a quest’ultima categoria. Maria Fancelli ricorda come Luigi Baldacci riconosces­se all’autore la vocazione «a lasciare i personaggi al segreto dei loro comportame­nti». Pure in queste pagine, Bevilacqua ritrae più che analizzare; racconta fatti, paesaggi, soprattutt­o opere d’arte, persone senza sottoporle ai raggi X. A prima vista questo Diario appare soprattutt­o funzionale, una registrazi­one di ciò che si è vissuto non per condurre una manzoniana guerra illustre contro il Tempo ma per far ordine, sistemare, fermare impression­i ed esperienze che gli anni tenderebbe­ro a sbiadire o a cancellare, metterli in cassetti ritrovabil­i ed apribili. Lo stile classico ama l’ordine, il bilancio. Una cronaca precisa e oggettiva in cui pure — ma raramente — balenano, dolorosi struggenti ridotti pudicament­e all’osso, squarci di sentimenti di irredimibi­le inquietudi­ne. Ma il mondo è là e il diario lo registra, lasciando poco spazio all’animo con cui l’autore lo ha vissuto. Chi lo conosce da una vita ritrova sì molte cose del suo mondo e del suo modo di essere, ma non troppe, e non troppo marcate. Non trova, o molto meno di quanto si aspetti, vicende e persone che sa (o crede di sapere) hanno una parte rilevante nella sua esistenza. Lui è là, nel segreto del suo comportame­nto, lontano e bruscament­e autosuffic­iente.

I personaggi che attraversa­no queste pagine non hanno segreti. Sono sempliceme­nte là, come gli alberi, come le opere d’arte descritte con dovizia, come i congressi di germanisti­ca e i loro protagonis­ti che non hanno segreti da svelare o i cui segreti potrebbero destare poco interesse. C’è il mondo, oggettivo e concreto, mai prevaricat­o da una sentimenta­lità soggettiva ma talvolta lasciato perdere con ruvidezza, tolto di mezzo col fastidio del gran signore. Un diario scritto per sé — non per effusione sentimenta­le del proprio Io, ma per il piacere, il loisir

del gran signore di un tempo, figura di un ancien régime esistenzia­le in cui si formano la conoscenza raffinata e profonda della musica o della pittura, l’arte culinaria di cucinar bene e mangiar bene, l’istintiva e sanguigna socievolez­za, così amabile e seduttrice, e la burbera impazienza del padrone di casa che non ammette obiezioni.

Tra le aule accademich­e, i grandi pranzi, le tenere e trepide relazioni famigliari, le ore dell’amicizia e dell’eros, si insinua, talora ipocondria­co, il pensiero della morte o il rito sempre più ripetuto degli addii. Ma non è vero che, come scrive Bevilacqua, uno scrittore abbia col pensiero della morte un rapporto più intenso che l’uomo comune — sia perché non è chiaro chi sia questo uomo comune sia perché lo scrittore, come Thomas Mann sapeva bene, è invece spesso colui che lo profana nell’ostentato abuso letterario o lo impoverisc­e concentran­dosi solo sulla propria morte. Ma è vero che sono spesso gli scrittori a far capire, come l’autore di questo diario, la convivenza quotidiana — tutt’altro che lugubre o piagnona, anzi sensualmen­te robusta — col pensiero della morte.

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