DiCaprio vendicatore
Leonardo: «Non definitelo western È il viaggio esistenziale di un uomo che cerca se stesso in un’avventura»
Mentre gli americani, nelle festività, affollano le sale cinematografiche, tanti spettatori e fan si chiedono se Leonardo DiCaprio, dopo cinque nomination agli Oscar, riuscirà finalmente con Revenant - Redivivo, diretto da Alejandro Iñárritu, a vincere la statuetta come miglior attore.
Il ragazzo del Titanic, oggi un uomo di 41 anni impegnatissimo sul fronte ambientalista, assicura «di non pensarci» e dichiara: «Questo film è stato importantissimo per me, la lavorazione tra il Canada e la Terra del fuoco in Argentina, in aree interamente coperte da neve e ghiaccio, mi ha coinvolto per otto mesi. Non considero Revenant un western, ma la storia di un uomo che cerca vendetta e il se stesso migliore nella natura più impervia».
L’uomo, Hugh Glass, ha visto la sua famiglia trucidata, tranne un giovanissimo figlio che lo accompagna. Il ragazzo è un mezzosangue perché la madre era un’indiana: sarà ammazzato anche lui dai mercenari a caccia di pellicce. «Otto mesi nel freddo e tra ghiacciai e lande desolate mi hanno temprato il fisico e il carattere», dice Leo, che non ha mai lasciato Hollywood, dove è nato e dove, in un’ala della sua villa, legge i libri dei quali acquista i diritti e che spesso produce come film con ruoli destinati ad altri attori mentre la sua splendida carriera passa da ruoli che continuamente lo trasformano.
Ha conquistato tante copertine nelle ultime settimane, che hanno stampato «manuali di sopravvivenza». Afferma: «Sì, li ho letti, a volte sorridendo, ma nessuno potrà rivivere l’esperienza di Hugh tra bande di predatori, di indiani che cercano rivalse nei loro territori depredati e uomini pronti a tutto per conquistare un carico di pelli. Il film è tratto da una storia vera, che Iñárritu, con cui volevo recitare da tempo perché ho molto amato i suoi film Babel e 21 grammi, ha trasformato e arricchito rendendo l’esploratore e cacciatore di pellicce Hugh Glass non un eroe, ma un uomo che cerca anche se stesso in un’avventura, un viaggio esistenziale per me. Sia io che Iñárritu abbiamo fatto nostra la sua esperienza, e durante le riprese, effettuate in condizioni di pericolo e gelo estremo, alcuni membri della troupe hanno abbandonato la produzione per le condizioni troppo difficili di lavoro». Ma, continua, «sin dalla prima lettura del copione io ho scelto di resistere. Sopravvivere sempre significa vivere. Considero Revenant non solo il mio film più duro e complesso, ma anche una storia sociale e politica».
Fa una pausa, poi determinato come è il suo carattere, aggiunge: « Sono assolutamente d’accordo con Iñárritu
La trama, che poi è una vicenda vera, ha forti paralleli col nostro tempo fatto di disperate immigrazioni e di ricerca di lavoro per tanti
quando, a un recente gala al Los Angeles County Museum, ha dichiarato che gli immigrati in America invece di essere etichettati “lavoratori senza documenti” dovrebbero essere definiti “sognatori senza passaporti”. Penso che il cinema non debba mai edificare muri di divisioni, ma ponti di collegamento. Revenant, a mio parere, lo fa con una storia forte, a tratti anche insostenibile nella sua reale violenza, in cui accade di tutto — ho dormito nella carcassa di un orso e mangiato carne cruda di bisonte — ma rimane un’avventura con forti paralleli col nostro tempo di disperate immigrazioni e di ricerca di lavoro per tanti».
«Per me — prosegue — il cinema è un’arte e ad esso ho dedicato sino a ora gran parte della mia vita. Non sono legato a nessuno dei miei film, ma ho molto amato Revolutionary Road di Sam Mendes, Inception di Christopher Nolan, J.Edgar di Clint Eastwood».
Ha accettato di girare Revenant, spiega, «perché al centro del film c’è, secondo me, una domanda: Chi siamo? Chi diventiamo quando tutto ci è avverso, quando per giorni, per mesi siamo soli ad affrontare i problemi più drammatici delle nostre vite? La storia di Hugh Glass fa parte del folclore americano, io l’ho vissuta e interpretata come una esplorazione della natura che ci circonda e, soprattutto, dell’umana natura».
Questa storia pone un quesito: chi diventiamo quando per mesi siamo soli ad affrontare i problemi più drammatici delle nostre vite?