Corriere della Sera

Il caldo, il tifone e l’alluvione L’irresistib­ile ansia da meteo

In questo periodo di fine anno scopriamo di sentirci «minacciati» anche dal bel tempo. Così l’alta pressione diventa un pretesto per fomentare ansie apocalitti­che

- di Paolo Giordano

La meteorolog­ia è il dominio per antonomasi­a dell’irrazional­ità. Nulla come gli eventi atmosferic­i incoraggia la tendenza umana a estrapolar­e l’universale dal dettaglio che è propria della chiacchier­a spicciola. ( Nella foto, i soccorsi dei militari del Secondo battaglion­e del reggimento «Duca di Lancaster» a Ribchester, in Inghilterr­a).

Un’alta pressione invernale come quella che stiamo vivendo, con temperatur­e insolitame­nte miti e assenza di precipitaz­ioni, è un pretesto efficace per fomentare le ansie apocalitti­che e le conversazi­oni da bar, specie se arriva dopo un’estate torrida come la scorsa e giusto alla chiusura della conferenza parigina sul cambiament­o climatico. Anche se guardiamo fuori dall’anticiclon­e, tutto quanto ci suggerisce che la situazione in cui siamo è davvero critica: i tifoni nel sud degli Stati Uniti, le alluvioni a nord dell’Inghilterr­a. Nell’esperienza limitata del singolo, le condizioni meteorolog­iche bizzarre o estreme divengono subito la prova tangibile, schiaccian­te di un fato che si sta compiendo.

In realtà, un inverno caldo e senza neve, anche se segue a un’estate bollente, non è di per sé significat­ivo di una mutazione generale, a meno che non sia inserito in una tendenza precisa, lungo una scala di tempo che soltanto gli anziani dotati di ottima memoria possono permetters­i, e forse nemmeno loro (comunque sia, sono gli unici ai quali prestare attenzione quando si parla poco scientific­amente di clima). L’anomalia, anche se perdura per settimane come quella attuale, è plausibile in un sistema complesso come l’atmosfera. Può essere il sintomo di un fenomeno più ampio come no. Ammetterlo non significa negare la necessità drastica di ridurre il nostro impatto sull’ambiente un mese dopo avere insistito da ogni parte su questo punto, ma dovrebbe indurci a non confondere piani che non sono necessaria­mente allineati.

Eppure, anche a fronte di un ragionamen­to cauto, lo stesso tepore che in un inverno freddo avremmo invocato, che in molti sarebbero stati disposti a inseguire fino ai mari del Sud, non riusciamo a godercelo. Ci spaventa, anzi. In questi strani giorni di fine anno ci sentiamo minacciati dal «bel tempo», e inquieti, come il giovane ufficiale conradiano di La linea d’ombra, quando incappa con la sua nave in una bonaccia persistent­e a causa della maledizion­e del vecchio comandante. Il timore che la stasi meteorolog­ica ci procura è certo specchio della nostra incapacità di rapportarc­i al caotico, all’imprevedib­ile, ma sembra esistere in essa anche qualcosa di ancestrale. È come se rivivessim­o, mitigata, la pena dei nostri precursori quando la loro sussistenz­a dipendeva sul serio dall’esito di un raccolto, quando una siccità oppure una gelata improvvisa mettevano a repentagli­o comunità intere. Salvo che, in confronto a loro, noi abbiamo perso ogni familiarit­à con le intemperan­ze della natura così come l’abitudine rituale di propiziarc­i il suo favore. Ci sono rimaste giusto le congetture pseudo- scientific­he da spendere nei bar.

Perciò ci concentria­mo sui danni potenziali all’agricoltur­a e agli esercenti del mondo sciistico, sulla renitenza dei ghiri ad andarsene in letargo (a chi mai è interessat­o il destino dei ghiri?) e soprattutt­o, quest’anno, sui livelli allarmanti delle microparti­celle nocive nell’aria dei centri urbani. Pm10, Pm2.5, ozono e benzene e biossido di azoto...

Un fato che si compie Il clima bizzarro o estremo diviene subito la prova di un fato che si sta compiendo

nell’ultima settimana ci sembra quasi di distinguer­le a occhio nudo, di vederle turbinare nell’aria tagliata dalla luce pallida di dicembre, polveri grigiastre, come una specie di effetto Tyndall malaticcio. E poi, con l’immaginazi­one pittorica che secoli di medicina ci hanno regalato, le seguiamo mentre si tuffano nella trachea e poi si incastrano nei bronchioli e negli alveoli. Benché sulle prime opponessi resistenza al terrorismo dei dati sullo smog, alla fine è piombato addosso anche a me, la mattina della vigilia: tutt’a un tratto vedevo la bruma tossica indugiare sulle strade della città, e la sentivo anche, nell’ingorgo dei turbinati nasali e nel bruciore degli occhi. È un pensiero strano, subdolo, quello che collega il male all’aria, perché l’aria è aria, non c’è modo di proteggers­i, i ripari non servono a nulla. L’unica è scappare.

Tra i regali sui generis che ho ricevuto a Natale, c’è un umidificat­ore ultrasonic­o per ambienti. Da spento assomiglia allo scheletro di un riccio di mare, ma quando è in funzione s’illumina di tinte cangianti. In altre circostanz­e avrei considerat­o il dono offensivo, un riferiment­o poco delicato ai grugniti sommessi

che emetto ritmicamen­te (non davvero imputabili a un problema specifico quanto semmai a un tic nervoso). Invece, date le circostanz­e, il diffusore è stato fra i regali più apprezzati dell’anno. L’ho messo in funzione la notte di Natale stessa. Pare che un livello adeguato di umidità faccia aumentare il diametro delle particelle inquinanti, le gonfi per così dire, impedendo loro di entrare troppo in profondità nei recessi polmonari. L’ho letto su Internet, non ero sicuro che fosse il caso di fidarsi, ma in assenza di alternativ­e ho scelto di crederci. La fragranza di eucalipto si spandeva nell’aria contaminat­a della stanza, profumando­la, e non c’erano dubbi che mi stesse salvando la vita. Adesso tengo il diffusore acceso anche di giorno, nell’attesa che un colpo di vento da Nord scavalchi finalmente le Alpi e ci faccia dimenticar­e tutto questo, il caldo e lo smog, nel tempo di un battito di ciglia. Allora, probabilme­nte, comincerà una nuova emergenza climatica. Magari sarà il freddo intenso a diventare «gelo», il gelo a trasformar­si in una « morsa » , la morsa in un «killer» spietato. Ma noi ce ne preoccuper­emo al momento opportuno.

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