Jihadisti
per combattere a fianco dei musulmani bosgnacchi, storicamente moderati, contro i cattolici croati, gli ustascia e gli ortodossi serbi. Lì esplosero le anime religiose dell’ex Jugoslavia che secondo l’intelligence hanno portato alla nascita di una decina di piccoli villaggi fondamentalisti dove di tanto in tanto sventolano le bandiere nere dello Stato islamico e le donne girano in niqab o in hijab e dove le regole sono dettate dal Corano. «In questi luoghi si arriva da una sola strada visibile dall’alto perché devono vedere chi sale», spiegano gli uomini del Sipa, la forza speciale di polizia.
Il vicino
I dieci villaggi
L’enclave salafita più controllata è Gornja Maoca, a Nord Est, altri piccoli centri si trovano fra i boschi più centrali di Teslic, Osve, Maglaj, Gluha Bovica, Mehurici, Zenica, teatro della sanguinosa guerra degli anni Novanta con i primi tagliagole dell’età contemporanea.
Noi siamo a Nord Ovest, nel cantone di Bihac, dove i wahhabiti hanno messo radici a piccoli gruppi fra Velika Kladusa e Bužim, tutti un po’ legati alla predicazione di Bosnic. Il quale dalla prigione di Sarajevo sta delegando molto. La riprova ce l’abbiamo proprio a Bosanska, dove arriva una vecchia Opel a tutta velocità. L’uomo frena, scende, si agita. Urla in bosniaco qualcosa di molto duro e minaccioso. Ed è pure buio. Non è una bella situazione. Chiede chi siamo, pretende le foto. Poi succede qualcosa di incomprensibile e di colpo si calma e dice pure il suo nome: Hakmed Mustafic. È l’amico fidato di Bosnic. A lui l’imam ha affidato le chiavi della proprietà: « E trentamila euro, che restituirò appena posso. Conosco Bilal da quando era piccolo, è una brava persona, la sua famiglia ha molti problemi adesso». Già: ha 43 anni, quattro mogli (solo una sposata ufficialmente per rispettare la legge bosniaca) e 17 figli da mantenere. «Diciotto, l’ultimo è nato dopo l’arresto». Bilal e Hakmed sono cresciuti fra le montagne di Bužim, nel villaggio di Šišici, una ventina di chilometri più a Est. Ci andiamo.
«L’imam era un pastore prepotente»
La casa di Bosnic è molto grande, su tre piani, meno di uno per moglie. C’è un altoparlante sul tetto, una scritta araba su un muro, lo stesso dove è stata tolta una bandiera nera con la scimitarra. «Lasciate stare mio papà», dice un tenero bambino. Procediamo e arriviamo al villaggio. Sei case, molto fango, un ruscello. Le donne, tutte col velo, entrano in casa. Esce l’uomo più anziano, il quarantatreenne Kasim Šišic, un ex «Era un pastore come me. Ora fa il teologo, ma tutta questa santità io non la vedo» Il predicatore aveva comprato otto ettari di terra. Il Qatar gli ha donato 200 mila dollari ufficiale dell’esercito bosniaco che è anche il rappresentante di una dzemat, la comunità islamica del posto. Kasim fuma e sorprende: «Ve lo racconto io Bilal, lo conosco da sempre. Lui era un pastore come me, figlio di un uomo che era andato anche in Germania a lavorare, faceva le pulizie alla stazione di Stoccarda. Adesso lui sembra un imam, un teologo, e io un contadino stupido. Non mi piace, eravamo uguali. E tutta questa santità non la vedo, soprattutto quando portava le pecore a pascolare sulla mia terra. Da bambino poi era uno di quelli che non voleva perdere a pallone». Insomma, non lo ama. «Soffre di un complesso di superiorità».
A Šišici c’è chi è meno ostile di Kasim. È il falegname Rasim, che stenta a farsi vedere per ragioni ideologiche. Rasim ha la barba salafita e la sua famiglia osserva la sharia, come Bosnic. Niente alcol, niente televisione, moglie col velo, di sera sempre accompagnata, vietati il ballo e la musica strumentale e tutto ciò che è immagine. «Evitiamo ciò che può allontanare da Allah e corrompere l’anima», semplifica Rasim con un sorriso buono e uno sguardo estatico che evita di incrociare quello dell’interprete: donna, capelli sciolti. Tentazione.
Insomma, nel cuore dell’Europa, a ridosso del confine comunitario e a 200 chilometri dall’Italia c’è chi vive così. E poco più in là spuntano confini scoperti, reclutatori dell’Isis, bandiere nere e investimenti arabi.
L’avvocato: la democrazia ha fallito
Nel centro della Bosnia, a Travnik, fra i simpatizzanti salafiti c’è invece pure un avvocato, Adil Lozo. Non uno qualsiasi: è il legale di Bosnic. Lozo ha i baffi folti e il carattere spigoloso come la sua terra: «I sistemi democratici hanno dimostrato il loro fallimento, la legge perfetta è la sharia. Nessuno ruba, nessuno tradisce, nessuno uccide. Io a Medina ho visto oreficerie protette da una sola tenda. Bilal dice questo». E tutti i giovani che ha mandato a morire in Siria? «Non ha mai detto di andare a combattere, le scelte sono personali, e poi in Siria ci sono sei eserciti». Parigi? «Io non so se è stato l’Isis, non credo all’informazione». Contro di lui di schiera il Reisu-l-ulema di Sarajevo, Husein Kavazovic, massima autorità musulmana del Paese, che ci apre la porta del centro islamico più autorevole della Bosnia Erzegovina: «Condanno i fatti di Parigi, condanno certi atteggiamenti radicali e quel Bosnic non è un imam». Anche l’imam di Velika Kladusa, Coragic Zumret, prende le distanze: «A Bilal dico una sola cosa: caro fratello, a cosa ti è servito tutto questo? Allah ti giudicherà e tu pagherai per le volte che hai portato qualcuno sulla strada sbagliata, come insegna il Corano»
Il cielo di Velika è grigio, il freddo pungente. Dal minareto si leva il lungo salmodiare di un muezzin che sembra il lamento della terra. L’imam Husein Bosnic, detto Bilal, considerato il più grande reclutatore europeo di jihadisti (dietro, sotto la bandiera dell’Isis). Con lui alcuni suoi seguaci, nel Nord Ovest della Bosnia Erzegovina. Indagato anche in Italia dall’antiterrorismo di Venezia per aver promosso la Guerra santa e radicalizzato musulmani prima moderati, Bosnic è stato arrestato e condannato il mese scorso a 7 anni a Sarajevo. Per «reclutamento di persone della comunità salafita, diventati parte dell’Isis allo scopo di compiere attentati terroristici». Nelle foto in basso: Brigovi, il paese natio di Bosnic; la bandiera nera (poi tolta) affissa sul muro esterno della sua abitazione a Šišici; e una visuale della casa
Šefik Cufurovic ha un’ossessione: suo figlio Ibro. Un giorno se n’è andato di casa e qualche tempo dopo ha saputo che era finito in Siria a combattere per il Califfo. «Prima di partire mi ha guardato negli occhi e mi ha detto tu sei un infedele». Non sa se Ibro è vivo o morto: «Non lo sento da mesi, l’unico contatto ce l’ha con il fratello ma da qualche tempo non chiama più neppure lui o almeno così mi dicono».
Šefik, 58 anni, un po’ muratore, un po’ elettricista, un po’ fabbro, un po’ imbianchino, molto disoccupato, è musulmano. Vive da solo in una baracca accanto a una fabbrica di bitume a Donja Slapnica, fra le colline meno aspre di Velika Kladusa, senza luce, senza gas. Lui molto dignitosamente cerca di tenerla pulita e ordinata al punto da farci togliere le scarpe. I figli, quattro, se ne sono andati e la moglie l’ha lasciato. Ma il suo tormento è lui, Ibro il jihadista. «Peggio, terrorista, guarda qui». E ti fa vedere i documenti della Procura di Sarajevo che lo accusano di terrorismo. Sono carte che arrivano a lui perché questo di Donja Slapnica è il solo indirizzo noto ai magistrati della capitale. «E pensare che era una bravissimo ragazzo, molto capace a scuola, aveva vinto anche una borsa di studio di Era il prediletto Era un bravissimo ragazzo, molto capace a scuola. È stato Bilal a traviarlo
3 mila marchi. Poi, l’anno scorso, ha conosciuto Bilal Bosnic ed è cambiato tutto in pochi mesi».
Šefik è combattuto, deluso, arrabbiato: «Fin che farà il terrorista non avrà nulla da me». Ricorda le sue ultime parole: «Mi ha detto “io faccio la volontà di Allah”, ma io questo Allah non l’ho mai conosciuto. Gli ho detto guarda che se tu sei al mondo è grazie a me e a tua madre, non ad Allah».
Questo padre che vive senza nessuno in una misera casa di periferia non si dà pace. Ibro era uno dei figli ma per lui ha sempre avuto un occhio di riguardo e non ha difficoltà a riconoscerlo: «Era l’unico a essere nato nel matrimonio, gli altri sono figli di rapporti extraconiugali. Per lui ho fatto molto, ho dato tutto quello che avevo. E Ibro mi ha sempre ripagato». Sefik scuote la testa, si alza brontolando in bosniaco, mette un po’ di legna nella stufa. Poi torna e sbatte sul tavolo il documento che accusa il figlio prediletto: «Dovevamo denunciarlo subito, quando abbiamo capito che il predicatore lo stava portando sulla strada sbagliata. Adesso è troppo tardi: Ibro ha cambiato nome e identità e mi rinnega come padre. Chissà dov’è, chissà se c’è». Dopo l’addio, lui ha fatto tutto quello che poteva: è andato a Sarajevo, ha parlato con il procuratore antiterrorismo, ha testimoniato contro Bosnic urlando tutta la sua rabbia davanti a giudici e avvocati.
Ora sospira pensando ai tempi rapidi della conversione all’estremismo. «Questo Bosnic veniva a casa nostra quando io non c’ero. Sapevo che si incontravano ma non l’ho mai visto. Una volta Ibro ha strappato tutte le foto che gli avevo fatto da bambino, diceva che quello era un peccato. Avrei dovuto fermare Bilal e forse avrei salvato Ibro. Siamo stati troppo tolleranti. A volte bisogna essere forti e decisi». Una cosa è certa, dice: «Finché starà in quel posto a fare il terrorista, da me non avrà nulla. Gli ricordo che io alla sua età mi sono occupato di mio padre, quando non stava più bene. È il dovere di un figlio. E io ora non sto bene».
È in questa povertà che Bilal Bosnic ha trovato un altro uomo per il suo esercito. Un altro martire per lo Stato islamico. Šefik butta altra legna nella stufa. La notte è lunga e fredda a Donja Slapnica. Ma il vero gelo è dentro di lui, quando pensa a Ibro.
I soldi del Qatar