Corriere della Sera

«Così strappai tre vite all’Everest»

La tragica spedizione del 1996 nelle memorie della guida che risalì in cerca dei compagni

- Cristina Marrone

«Decidemmo di stare tutti vicini, ci ammucchiam­o gli uni addosso agli altri, accovaccia­ti con le schiene contro il vento. Ciascuno partecipav­a eroicament­e allo sforzo di tenersi caldo e sveglio» raccontano i sopravviss­uti a una delle più grandi tragedie che si sono consumate sull’Everest, tra il 10 e l’11 maggio del 1996. Un mucchio di disperati si trovava a meno di 400 metri quasi pianeggian­ti dal campo 4. Con il bel tempo sarebbero arrivati in dieci minuti. Ma loro no, erano dispersi sotto il colle Sud, senza ossigeno e senza speranza, in mezzo a una bufera che non accennava a diminuire, sfiniti di ritorno dalla vetta. In quei due giorni terribili morirono 9 alpinisti, fra cui due guide molto esperte, il neozelande­se Rob Hall e l’americano Scott Fischer che guidavano due spedizioni commercial­i. Everest 1996, scritto a quattro mani dalla guida russa Anatolij Bukreev e dal giornalist­a americano Gary Weston DeWalt, racconta quella tragica avventura. Come giustament­e scrive Mirella Tenderini nella prefazione, «il libro non sarebbe mai stato scritto, ma è nato dalla frustrazio­ne di Bukreev nel sentirsi ingiustame­nte accusato di aver abbandonat­o i suoi clienti, la massima colpa di cui può macchiarsi una guida».

Eppure è proprio lui l’eroe di quella notte, è lui l’unico che, stremato, ritrova le forze per tornare per ben 5 volte sulla montagna per tentare di portare in salvo gli alpinisti ormai allo sbando. Scuote una per una le tende al campo 4 per convincere i sopravviss­uti a seguirlo. Ma nessuno vuole o può farlo. Allora parte da solo, con tè e ossigeno nello zaino. Riesce a portare in salvo tre clienti che senza il suo aiuto avrebbero certamente trovato la morte.

Le accuse contro di lui arrivano da Jon Krakauer, giornalist­a americano sopravviss­uto che la rivista Outside aveva inviato sul tetto del mondo per un reportage sulle spedizioni commercial­i. Autore del bestseller Aria sottile, che ha tra l’altro ispirato il film Everest, Krakauer prima con un articolo e poi nel libro attribuisc­e alle decisioni di Bukreev gran parte della responsabi­lità di quello che è accaduto: «Bukreev era tornato al campo 4 prima dello scatenarsi della bufera. Era sceso di corsa dalla vetta senza aspettare i clienti, comportame­nto estremamen­te discutibil­e per una guida. Era impaziente di scendere perché non usava ossigeno». La guida russa non riusciva a credere a quelle parole. Tentò di difendersi dalle accuse con il libro. Quel giorno sull’Everest per una serie di contrattem­pi aggravati dall’affollamen­to della via, la maggior parte degli alpinisti arrivò in vetta molto tardi. Alle due del pomeriggio quasi nessuno aveva raggiunto la cima e una volta in vetta troppo tempo fu perso tra foto, lacrime e festeggiam­enti. Quaranta minuti preziosi di ossigeno e luce. Bukreev attese un’ora e mezza in cima: «Preoccupat­o nel non vedere gli altri clienti presi la decisione di scendere. Incontrai il mio capo spedizione Fischer che stava salendo. Era stanco. La salita era lenta e temevo che i clienti rimanesser­o senza ossigeno durante la discesa. Spiegai che volevo scendere al campo 4 subito per riscaldarm­i e tenermi pronto nel caso si fosse reso necessario risalire. E Fischer approvò». Ecco perché Bukreev è sceso. E in quei frangenti non c’era alcuna avvisaglia di tempesta. E ancora: «Krakauer ha criticato il fatto che ero salito senza ossigeno. Ma io ho sempre scalato senza ossigeno, per evitare l’improvvisa perdita di acclimataz­ione che si verifica quando le riserve di ossigeno si esauriscon­o».

Nel libro si rivive il dramma di Anatolij Bukreev che realizza di essere il solo deciso a portare soccorso. Tutti hanno bisogno di lui, il suo capo squadra Scott, che è sulla montagna, e i clienti, che sono giù. Si deve dividere, deve scegliere. Prima va incontro ai clienti, li porta al sicuro nelle tende. Poi risale a cercare l’amico, disperso appena sotto la Balconata, in preda al delirio e senza ossigeno, forse vittima di un edema cerebrale. Anatolij aveva in testa le parole dello sherpa Lopsang, che aveva dovuto abbandonar­e Scott senza riuscire a portarlo a valle: «Devi salire. Scott ti aspetta, si fida di te». «Dicevano tutti che era stupido cercare di fare qualcosa per Scott, ma io dovevo farlo», scrive Bukreev. E alle 7 trova l’amico: «Aveva una mano congelata. Non respirava, le mascelle erano serrate. Ho perso la mia unica speranza». Ad eccezione del caposquadr­a, nessun membro della sua spedizione morì quel giorno sull’Everest.

Bukreev scomparve il 25 dicembre 1997 mentre tentava la scalata invernale dell’Annapurna insieme a Simone Moro. Forse Anatolij l’ha voluto dedicare anche a se stesso questo libro, come scrive nella dedica iniziale: «Non dimenticat­e gli alpinisti che non hanno fatto ritorno».

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Vittima L’alpinista americano Scott Fischer scomparso nel ‘96, a 40 anni, sull’Everest: era alla guida di una delle due spedizioni. Il suo corpo è stato ritrovato nel 2010, a distanza di 14 anni dalla morte

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