Corriere della Sera

PAPA FRANCESCO E LE SVOLTE DEL 2016

Differenza L’insegnamen­to di Bergoglio separa chi pensa che il Vangelo possa servire a fare politica e chi crede che alla politica serva una Chiesa impregnata del solo Vangelo. Il Pontefice si è dato come compito di traghettar­e tutti da questa parte

- Di Alberto Melloni

Il Tevere che per lungo tempo ha diviso una laicità esangue da un clericalis­mo pronto al compromess­o non è più il fiume dirimente che fu per decenni. Oggi conta molto di più il Rio Bergoglio: quel rigagnolo sottile, tutto interno alla Chiesa cattolica, che separa chi pensa che il vangelo possa servire a fare politica e chi pensa che anche alla politica serva una Chiesa impregnata dal solo vangelo.

Francesco si è dato come compito di traghettar­e tutta la Chiesa cattolica da questa parte. E lo fa. Con lo spirito agonistico di chi anziché farsi scoraggiar­e viene motivato dai «colpi» della Banda Bassotti (in senso etico) che aveva sotto casa, dalla resistenza di chi nel collegio cardinaliz­io attende una rivincita conclavari­a, dalla insofferen­za di chi ha perso i telecomand­i della curia, dalla banalizzaz­ione non innocente di chi sui media racconta troppe sue «rivoluzion­i», mettendo sullo stesso piano le sue scarpe e la sua teologia della sinodalità...

In questa operazione gioca un ruolo centrale la misericord­ia come luogo teologico: che il Papa annuncia alla Chiesa e che enuncia a clas- si politiche segnate, almeno in Occidente, da una straordina­ria capacità di sottovalut­are i problemi che le sovrastano. Le istituzion­i democratic­he che dall’Europa alle Americhe talora fabbricava­no statisti, producono spesso figure voraci e modeste, comunque inadeguate a una guerra mondiale ancorché a capitoli. Le elezioni, che erano il sacramento delle libertà, trasforman­o, quando va bene, la volatilità delle minoranze di votanti in governi tenuti assieme dalla mancanza di un progetto di società. La diplomazia fatta da pochissimi giocatori su polarità orizzontal­i (est/ovest) è oggi stravolta da improvvise verticaliz­zazioni che legano Bamako a Molenbeek lungo i meridiani del denaro insanguina­to non contemplat­i dai manuali delle emergenze.

In questo quadro si muove il ministero di papa Francesco. Al cui centro c’è una cosa alla quale tanti, nella Chiesa e nella politica, sono disabituat­i. Cioè il cristianes­imo. Un cristianes­imo così esercitato da sembrare facile, così severo da poter essere paterno, così duro da diventare dolce. È il cristianes­imo di Francesco che disorienta chi cerca nel suo ministero quel che lui non vuole che ci sia. Convinto che il miglior rinnovamen­to della chiesa sia quello a norme invariate, Francesco ha fatto una sola capitale riforma, che è quella della predicazio­ne — cioè dello strumento che ha fatto del Vangelo di Gesù il Vangelo su Gesù.

Negli ultimi due secoli la chiesa delle condanne aveva rinunciato alla via dell’annuncio per condannare tutto — la modernità borghese, il liberalism­o, il capitalism­o, il comunismo, la cultura dei diritti, eccetera. Anche a costo di consegnare il guscio reazionari­o di un cristianes­imo senza fede a un Occidente senz’anima. Anche a costo di fare delle chiese locali i megafoni stanchi di un trionfalis­mo romano. Anche a costo di guardare con sospetto la leggerezza apostolica che riteneva superflua la missione fatta con una bisaccia per il vangelo e una per il potere. Anche a costo di perdere la propria conciliari­tà e la propria capacità di ascolto dell’altro — di Israele, delle chiese, delle culture.

Per Francesco la medicina della misericord­ia è il «balzo innanzi» profetizza­to dal Concilio: è la bussola per trovare il Cristo povero nei poveri. La politica di Francesco è «prigionier­a» di questo luogo teologico: la politica di Francesco è questa. Lasciarsi incontrare da tutti, ma solo lì: all’altezza del più piccolo, là dove la kenosis di Dio ha inciso l’inizio della grazia.

Per questo Papa guardare il mondo dal lato degli sconfitti e degli uccisi non serve a far del bene: quello le fanno anche le «fabbriche» di opere buone che lucidano con una carità pericolosa­mente impudica il proprio marchio. Non è nemmeno un modo di suscitare sentimenti effimeri di bontà: quello lo fanno anche quelli che dei 700 Santi innocenti annegati l’anno scorso nel Mediterran­eo ricordano solo Aylan il Siro, la cui foto ha sfiorato per qualche ora le nostre coscienze, così restie a lasciarsi sgualcire dal dolore umano.

Francesco cerca e trova (lo si vedrà in Sinagoga e in Chiapas nel prossimo gennaio) la prossimità al dolore effettivo del mondo, perché della misericord­ia che lì si attinge ha bisogno sia la chiesa sia un mondo slabbrato dalla paura, soffocato dalle polveri dell’odio. Governi, organismi internazio­nali e negoziator­i sono avvisati: chi vuol incontrare l’incomodo globale che è Francesco è lì che deve posizionar­si, senza astuzie e senza arroganze.

Per lui la medicina della misericord­ia è il «balzo innanzi» profetizza­to dal Concilio: è la bussola per trovare il Cristo povero nei poveri. Si tratta anche di raggiunger­e (lo si vedrà in Sinagoga e in Chiapas nel prossimo gennaio) la prossimità al dolore effettivo del mondo

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