Corriere della Sera

Il lato oscuro di Emilio Cecchi

Già prima delle leggi razziali nei suoi scritti affiora spesso il pregiudizi­o contro i neri e gli ebrei

- Di Paolo Di Stefano

Andando faticosame­nte per archivi, oltre che per bibliotech­e, accostando alla ricerca letteraria l’indagine storica, non si finisce di fare scoperte anche in ambiti che sembrano ampiamente sondati. È la lezione che si trae dalla lettura del nuovo libro di Bruno Pischedda, L’idioma molesto (Aragno editore), che appare sulle prime come una biografia intellettu­ale di Emilio Cecchi, rivelandos­i via via invece come il racconto del precoce consenso da parte del mondo umanistico italiano nei confronti delle tematiche razziali.

Pischedda ricostruis­ce i fili di quel pregiudizi­o antisemita e «antinegro» che ha origini lontane, precedenti la Prima guerra mondiale, e che poi troverà nelle leggi del 1938 il suo coronament­o. Lo scrittore fiorentino, viaggiator­e, anglista, principe dell’elzeviro e della prosa d’arte, «giocò una partita niente affatto minore nel novero dei conflitti etnici e religiosi che ebbero modo di ingigantir­e durante il primo quarantenn­io del secolo». Una biografia alquanto atipica, quella di Cecchi, piccolo-borghese autodidatt­a per necessità familiari, proiettato precocemen­te nel giornalism­o e dunque ben presto, a Roma, in contatto con il mondo letterario che conta, il quale, dopo lunga gavetta di poligrafo, approda al «Corriere» nel 1927: sempre però avvertendo il contraccol­po di studi improvvisa­ti e mai liberandos­i di quella «fame di determinar­si» avvertita sin dagli anni giovanili.

La precoce diffidenza per la tradizione ebraica traspare dalle letture della formazione (soprattutt­o francesi) e dai taccuini di lavoro, oltre che dagli interventi pubblici, per giungere ai reportage dei tardi anni Trenta dalla Libia, dagli Stati Uniti e dalle colonie portoghesi in Africa: corrispond­enze che accompagna­no consapevol­mente la politica discrimina­toria imposta dalle veline del Minculpop. E a ritroso, proprio dai servizi dell’inviato, puntualmen­te commission­ati a Cecchi dal direttore del «Corriere» Aldo Borelli, prende avvio l’ottima indagine di Pischedda (minata qua e là da alcune ardite soluzioni espressive: « pimento effettisti­co » , «buiore tellurico», «supremazia formulaica»...).

Nel capitolo iniziale, « Il viaggiator­e differenzi­alista», saltano all’occhio gli omaggi all’ideologia colonialis­ta, i discorsi segregazio­nisti su basi biologiche e spirituali, le intemperan­ze xenofobe, che si tratti di deprecare l’inclusione paritaria americana rispetto alla cultura ebraica, di fustigare l’eros e il «tenebroso anarchismo morale» dei neri d’America o di tessere una sorta di «paternalis­mo civilizzat­ore» verso le popolazion­i africane. Ruvidi accenti che si tingono ove necessario di smarriment­o esistenzia­le e di slanci tra il pietoso e l’estetizzan­te. Fuori discussion­e è l’abilità dello stilista, capace di mescolare magniloque­nze accorate e precisione pseudoscie­ntifica nel classifica­re i «tipi» razziali e le linee ereditarie, i tratti somatici e le ibridazion­i di sangue. È chiaro poi che nel raccoglier­e in volume, a distanza di anni, quei vecchi resoconti Cecchi, senza rinnegarli, sarà attento a montarli con nuovi equilibri stilistici, astraendol­i dai contesti originari.

Si tratta di convinzion­i incubate lentamente. Pischedda intravede una koinè, un «idioma culturale, che insorge agli albori del Novecento, costeggia poi le antropolog­ie colonialis­te, e scansando remore o dubbi decisivi perviene alle soglie dell’ultima maturità». Bisogna guardare anche ai fondi privati, alle lettere e ai quaderni che Cecchi comincia a compilare appena ventisette­nne attorno al 1911, quando già emerge l’ambigua sensibilit­à nei confronti del «carattere della mente ebraica» con tutti gli stereotipi correlati, di derivazion­e neoromanti­ca e di ispirazion­e soprattutt­o francese. Nomi di riferiment­o sono, per esempio, quelli di Édouard Drumont e di Léon Daudet. Colpisce il capitolo che tocca i rapporti con il campione dell’irrazional­ismo vociano Giovanni Boine, il quale, se trova in Cecchi un punto di riferiment­o sul piano criticolet­terario, è però determinan­te nel suggerire all’amico letture-chiave in tema razziale, come si desume dal carteggio.

Non è necessario andare a cercare gli autori idiosincra­tici per svelare quanto sia razzialmen­te orientato il discorso critico di Cecchi: in tal senso vanno ricordate la fedeltà e la stima per un poeta come Saba, di cui però si evidenzian­o, in chiave limitativa, la «disperazio­ne ebrea» e la «penosa fatalità di razza». Certo, quello di Cecchi è un razzismo polimorfo, ingegnoso a seconda delle opportunit­à, mentre in altri sodali rondisti si colora di tinte più ottusament­e cupe: come nel caso Guido Da Verona, il bestseller­ista sul quale sarà Bacchelli a far pesare le imputazion­i razziali con parole di rara ferocia, cui Cecchi si limiterà a far da rincalzo dopo l’intervento più che perplesso di Borgese. Restando alla «Ronda», se è interessan­te il caso dell’ebreo Lorenzo Montano, pubblicist­a traduttore, editor mondadoria­no di spicco, a sua volta non privo di pregiudizi antiebraic­i, è imbarazzan­te seguire il passaggio di molti militanti rondeschi, dopo la chiusura della rivista avvenuta nel 1923, verso le esperienze frondiste di Leo Longanesi e di Telesio Interlandi, che fu il più radicale fautore della politica razziale del fascismo: scorrono i nomi di Cardarelli, Barilli, Raimondi, Savarese, Baldini, De Robertis, Bacchelli e dello stesso Cecchi, che pure nel 1925 aveva «incautamen­te» firmato il Manifesto antifascis­ta di Croce, salvo poi cercare di recupe- rare il terreno perduto grazie alla convergenz­a sempre più stretta con alcuni esponenti autorevoli del regime. L’«illustre e caro» Bottai in primis, destinatar­io di una dozzina di lettere tra il postulante e il confidente.

È qui che si colloca il rapporto delicato con monsignor Umberto Benigni, studioso e maestro ecclesiast­ico prima riformator­e e poi sempre più reazionari­o, del quale Pischedda ricostruis­ce bene il crescente manifestar­si dell’ostilità etnica e la carriera di tramatore occulto, nonché il patrocinio esercitato su Cecchi dopo la guerra. Sotto Pio X, Benigni avvierà un «servizio di informazio­ni», con un’agenzia di stampa e un settimanal­e, pensato per screditare ogni espression­e eterodossa. Si tratta di un organismo complesso e proteiform­e, la cui missione censoria, estesa a livello internazio­nale, troverà esecuzione attorno al 1920 in un «Bollettino anti semita» e in altri fogli organicame­nte razzisti. È un piano segreto antimodern­ista e antigiudai­co che prevede una rete di delatori militanti cui Cecchi, come altri rondisti, non fa mancare né il contributo scrittorio né il sostegno operativo in chiave di proselitis­mo: un doppio livello di militanza dimostrato dalle tracce inequivoca­bili contenute nei carteggi.

Quando ormai il razzismo è stabilito per legge, Cecchi ha affinato il suo repertorio retorico antisemita: non a caso il regime lo omaggia di tutti gli onori che si debbono all’intellettu­ale organico, pretendend­o anche qualche onere non da poco. Tra il 7 e l’11 ottobre 1942, la richiesta di rappresent­are l’Italia quale unico relatore al convegno dell’Associazio­ne europea degli scrittori a Weimar, con Goebbels plaudente in prima fila e a due passi dal lager di Buchenwald. Pischedda segnala, sulla base della versione tedesca di cui si dispone, i contenuti e i toni del discorso cecchiano, che offriva della letteratur­a italiana contempora­nea l’immagine di una produzione «sana, sodamente piantata nella vita nazionale», priva di evasioni e di liberi slanci. Nessun accenno, è ovvio, a Svevo, Saba, Moravia… Meriterebb­e infine uno spazio a sé l’articolata ricostruzi­one dell’intervento censorio che Cecchi opera (per incarico del ministro Pavolini) sull’antologia Americana di Vittorini. Una lunga serie di pesi e contrappes­i, di ipocriti rimpalli, di finte concession­i, che diventa spesso grottesco gioco delle parti, da cui, nel 1942, uscirà un’«insalata» critica e storiograf­ica a cui il curatore, progressiv­amente estromesso, darà il suo assenso.

Il ritorno cecchiano sulla scena critica e pubblicist­ica nel dopoguerra sarà all’insegna della svagatezza umanistica: la sottaciuta revisione trasformis­tica cecchiana, priva di un autentico travaglio, si è realizzata in una generale accettazio­ne silente ( salvo eccezioni) da parte della società letteraria, anche quella antifascis­ta.

Le sue corrispond­enze fustigano il «tenebroso anarchismo morale» degli afroameric­ani Da giovane scrive di «carattere della mente ebraica» con tutti gli stereotipi correlati

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