L’ARTE DI MUSIC: PITTURA DA ASCOLTARE
Nel romanzo Bearn del maiorchino Lorenzo Villalonga (1897-1980) — considerato il Gattopardo spagnolo — il protagonista, don Antonio, perde progressivamente la memoria e vive in una dimensione nebulosa, rotta qua e là, da sprazzi di lucidità con relativi disorientamento e angoscia. Esattamente quanto succede a Zoran Music (1909-2005, foto) nel periodo finale della sua lunga vita (muore a 96 anni), documentato soprattutto dagli ultimi autoritratti. Una forma di narcisismo? No. Narciso era una maschera, la superficie di un capriccio. Qui, invece, c’è la consapevolezza di conoscersi così bene da potersi descrivere dentro. Una pittura introspettiva, dunque, di un artista che s’è sempre misurato con la propria storia, fatta di emozione, sentimento e memoria.
Alcuni autoritratti sono adesso esposti alla Galleria Contini di Venezia (sino al 29 marzo), assieme a circa 60 lavori: omaggio al grande artista per i dieci anni dalla morte. Disegni su carta, pastelli, acquerelli, olî, dal 1947 al ’96. Nudi, colline senesi, motivi dalmata, paesaggi rocciosi, vedute veneziane (canale della Giudecca, Punta della Dogana), traghetti, ritratti della moglie Ida, contadine col parasole a dorso di muli. E un buon numero dei celebri cavallini.
La mostra procede dal 1947, anno in cui Music si trasferisce a Venezia, in uno studio cedutogli dal compositore Francesco Malipiero nel sottotetto di Palazzo Pisani, sede del Conservatorio. Nel ’43, sempre nella città dei dogi, egli fa la sua prima mostra, presentato da Filippo de Pisis. Nel ’44, il pittore viene deportato a Dachau: il lager lo segna per tutta la vita («Vivevo in un quotidiano paesaggio di morti, di moribondi in un’apatica attesa»).
Punto d’incontro di civiltà orientale e occidentale, Venezia gli si rivela come il luogo eletto, sempre cercato, dove rintraccia i segni d’un mondo antico e li trasforma in quei cicli di pittura che ricrea continuamente, ai quali dà una dimensione metaforica. Nato nella Gorizia austro-ungarica, città di frontiera, Music ha assimilato le culture italiana, slava e tedesca, prima di girovagare per la Carinzia e, poi, a Zagabria, Vienna, Praga. Madrid, Parigi, Venezia. Le pietre aride del Carso diventano impronte e il vento che le attraversa una dolce musica ossessiva.
Pastelli, acquerelli e olî hanno in sé il segno d’una pittura aristocratica. Le immagini paiono sedimentate. Come nel contrappunto, lo spettatore viene sollecitato dallo svolgersi simultaneo di voci diverse: poche modulazioni e così rapide che non si avverte la sovrapposizione di più linee melodiche. La bellezza della tavolozza non solo si vede, ma anche si ascolta. I soggetti appaiono sullo sfondo: un baluginio quasi, con la luce che scaturisce dall’interno dei soggetti.
Fantasmi? Anche. Quelli che Music si porta dietro da Dachau (i treni piombati che arrivano da Auschwitz, vomitano dai vagoni «scheletri» con gli occhi fuori dalle orbite); immagini — che paiono collocarsi a metà strada fra Alberto Giacometti e Francis Bacon — da cui non riuscirà mai a staccarsi. Anche quando, a distanza di decenni, dipinge ritratti, vedute di Venezia o di Parigi, ecco che spesso, improvvisamente, i suoi paesaggi si compongono di morti sovrapposti.
Due dipinti di questa rassegna-omaggio sono intitolati Parigi (entrambi del 1988). E a Parigi, Music trascorreva sei mesi all’anno: la memoria gli restituiva una Venezia in declino, come quella delle pietre di John Ruskin, dove il decadimento era un’altra forma di bellezza, forza ossessiva d’una città in perenne agonia. Musica di Gustav Mahler.