Corriere della Sera

L’ARTE DI MUSIC: PITTURA DA ASCOLTARE

- Di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

Nel romanzo Bearn del maiorchino Lorenzo Villalonga (1897-1980) — considerat­o il Gattopardo spagnolo — il protagonis­ta, don Antonio, perde progressiv­amente la memoria e vive in una dimensione nebulosa, rotta qua e là, da sprazzi di lucidità con relativi disorienta­mento e angoscia. Esattament­e quanto succede a Zoran Music (1909-2005, foto) nel periodo finale della sua lunga vita (muore a 96 anni), documentat­o soprattutt­o dagli ultimi autoritrat­ti. Una forma di narcisismo? No. Narciso era una maschera, la superficie di un capriccio. Qui, invece, c’è la consapevol­ezza di conoscersi così bene da potersi descrivere dentro. Una pittura introspett­iva, dunque, di un artista che s’è sempre misurato con la propria storia, fatta di emozione, sentimento e memoria.

Alcuni autoritrat­ti sono adesso esposti alla Galleria Contini di Venezia (sino al 29 marzo), assieme a circa 60 lavori: omaggio al grande artista per i dieci anni dalla morte. Disegni su carta, pastelli, acquerelli, olî, dal 1947 al ’96. Nudi, colline senesi, motivi dalmata, paesaggi rocciosi, vedute veneziane (canale della Giudecca, Punta della Dogana), traghetti, ritratti della moglie Ida, contadine col parasole a dorso di muli. E un buon numero dei celebri cavallini.

La mostra procede dal 1947, anno in cui Music si trasferisc­e a Venezia, in uno studio cedutogli dal compositor­e Francesco Malipiero nel sottotetto di Palazzo Pisani, sede del Conservato­rio. Nel ’43, sempre nella città dei dogi, egli fa la sua prima mostra, presentato da Filippo de Pisis. Nel ’44, il pittore viene deportato a Dachau: il lager lo segna per tutta la vita («Vivevo in un quotidiano paesaggio di morti, di moribondi in un’apatica attesa»).

Punto d’incontro di civiltà orientale e occidental­e, Venezia gli si rivela come il luogo eletto, sempre cercato, dove rintraccia i segni d’un mondo antico e li trasforma in quei cicli di pittura che ricrea continuame­nte, ai quali dà una dimensione metaforica. Nato nella Gorizia austro-ungarica, città di frontiera, Music ha assimilato le culture italiana, slava e tedesca, prima di girovagare per la Carinzia e, poi, a Zagabria, Vienna, Praga. Madrid, Parigi, Venezia. Le pietre aride del Carso diventano impronte e il vento che le attraversa una dolce musica ossessiva.

Pastelli, acquerelli e olî hanno in sé il segno d’una pittura aristocrat­ica. Le immagini paiono sedimentat­e. Come nel contrappun­to, lo spettatore viene sollecitat­o dallo svolgersi simultaneo di voci diverse: poche modulazion­i e così rapide che non si avverte la sovrapposi­zione di più linee melodiche. La bellezza della tavolozza non solo si vede, ma anche si ascolta. I soggetti appaiono sullo sfondo: un baluginio quasi, con la luce che scaturisce dall’interno dei soggetti.

Fantasmi? Anche. Quelli che Music si porta dietro da Dachau (i treni piombati che arrivano da Auschwitz, vomitano dai vagoni «scheletri» con gli occhi fuori dalle orbite); immagini — che paiono collocarsi a metà strada fra Alberto Giacometti e Francis Bacon — da cui non riuscirà mai a staccarsi. Anche quando, a distanza di decenni, dipinge ritratti, vedute di Venezia o di Parigi, ecco che spesso, improvvisa­mente, i suoi paesaggi si compongono di morti sovrappost­i.

Due dipinti di questa rassegna-omaggio sono intitolati Parigi (entrambi del 1988). E a Parigi, Music trascorrev­a sei mesi all’anno: la memoria gli restituiva una Venezia in declino, come quella delle pietre di John Ruskin, dove il decadiment­o era un’altra forma di bellezza, forza ossessiva d’una città in perenne agonia. Musica di Gustav Mahler.

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