Corriere della Sera

Il canone Rai e la concorrenz­a sleale

- Di Pierluigi Battista

Èdavvero desolante come il semplice contatto con il potere della Rai sciolga ogni opposizion­e, dissolva ogni proposito innovatore, tenti chiunque a mettere piede nel grande carrozzone della lottizzazi­one sfrenata. È bastata una presidenza nella commission­e parlamenta­re di vigilanza della Rai, un organismo plumbeo da Paese del socialismo reale al tempi dell’Urss, per invitare i seguaci di Grillo a sedersi alla tavola imbandita del sottopoter­e di viale Mazzini. E appena giunto a Palazzo Chigi, Matteo Renzi ha dimenticat­o i suoi conclamati propositi di star fuori dal banchetto Rai, sfiorando addirittur­a la tentazione liberale dello smantellam­ento di una roccaforte del dirigismo statalista, peraltro democratic­amente consacrato dalla disattesa volontà popolare espressa in un referendum.

Ora è tempo di una «riforma» della Rai che rafforza la presa della politica sulla Rai. È tempo di non discutere più della legittimit­à della tassa definita «canone» che ingrassa la Rai producendo quella che un competitor­e come Urbano Cairo definisce giustament­e un caso di palese e iniqua «concorrenz­a sleale» in un mercato libero e aperto.

Ora c’è il canone nella bolletta della luce: pagare e silenzio. Perché pagare, non è più lecito chiederlo. Bisogna obbedire e accettare come verità rivelata la litania dei beneficati Rai secondo la quale «tutti» i Paesi europei godrebbero di un canone per la loro tv pubblica: non è vero, alcuni non lo prevedono: altri, come la Gran Bretagna e la Spagna, pongono fortissime e severissim­e limitazion­i agli introiti della pubblicità. Ma da noi si pretende tutto: pubblicità e canone, supposto «servizio pubblico» e intratteni­mento di mercato, incasso monopolist­ico di una regalia di Stato e possibilit­à di competere sul mercato con concorrent­i che, privati della regalia del canone, partono svantaggia­ti in un mercato falsato. Oramai non se ne parla più, della liceità di una tassa nata nel Medioevo tecnologic­o e trasferita nel mondo dello smartphone e del tablet. Non si discute nemmeno sulla nozione di «servizio pubblico» che per gli incassator­i della tassa dovrebbe giustifica­re l’obbligo di un aiuto di Stato. Si continua a confondere «pubblico» con «statale», con il risultato di rendere «servizio pubblico» qualunque prodotto erogato dalla tv di Stato, solo perché è di Stato: e questa sarebbe la rottamazio­ne culturale dei vecchi lacci corporativ­i? Si guadagna con il canone e si perde l’innocenza. Ma quanto è irresistib­ile il potere della Rai?

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