Corriere della Sera

LA LEZIONE ELETTORALE DI MADRID

- Di Paolo Mieli

Passano i giorni e la Spagna è ancora senza governo. Quella Spagna che era abituata a conoscere l’identità di chi l’avrebbe guidata nei prossimi anni la «sera stessa del voto», è stata costretta — come capitava a noi nella Prima Repubblica ed è accaduto di nuovo nel 2013 — ad abbandonar­e questa consuetudi­ne. Perché? A partire dal 1982 socialisti e popolari si spartivano più dell’80 per cento dei voti e (grazie all’effetto maggiorita­rio del sistema a piccole circoscriz­ioni) fino al 90 per cento dei seggi. A turno socialisti o popolari governavan­o e gli altri guidavano l’opposizion­e. Adesso quell’80 per cento ce lo hanno in quattro: due domeniche fa, Psoe e Podemos hanno avuto, sommati, il 42,7, Popolari e Ciudadanos il 42,6. Una mela spaccata a metà, ma in quattro spicchi. Sicché, per governare, qualcuno di loro dovrà stringere alleanze a cui tutti si erano dichiarati più o meno indisponib­ili. Da noi qualcuno esulta: la Spagna dovrà ora apprendere quella che Roberto Ruffilli chiamava «la cultura delle coalizioni» (Gianfranco Pasquino). Ma non è proprio così. Un conto sono le «coalizioni naturali», quelle basate su un programma comune, che vengono prospettat­e agli elettori prima del voto. Altra storia è quella delle «grandi coalizioni» che si può essere costretti a fare a seguito di un risultato elettorale incerto, tale da non consentire a nessun partito di governare da solo o in una «coalizione naturale».

avesse avuto un secondo turno, oggi Madrid avrebbe un governo grazie proprio al voto della «maggioranz­a dei cittadini». Mentre, in assenza di quel sistema, la Spagna dovrà procedere con (finte) grandi coalizioni costrette a governare alla giornata e dovrà lasciare all’opposizion­e forze destinate a gonfiarsi alla prossima verifica nelle urne.

C’è infine chi paventa il rischio che con il doppio turno all’italiana «il primo populista» ne approfitti per arrivare a Palazzo Chigi (Sofia Ventura). Reso più esplicito, vuol dire che se in Francia va, sia pure per pochi voti, al secondo turno il Front National o in Italia il Movimento Cinque Stelle, può accadere che poi una di queste forze anti sistema vinca le elezioni. È così. Ed è normale che sia così. Anzi, è giusto che sia così. Del resto, l’intero centrosini­stra (a partire da Pier Luigi Bersani ma, con lui, tutto il Pd) ha fatto del doppio turno un mantra per oltre un ventennio. Consapevol­e — immaginiam­o — che avrebbe potuto passare al secondo turno e poi vincere Silvio Berlusconi. O, adesso, Matteo Salvini. Perciò, diciamocel­o con la dovuta chiarezza, sarebbe un grave errore cambiare ora il modo di votare per impedire l’eventualit­à che qualcuno sia messo in condizione di governare così da costringer­lo a piegarsi a coalizioni di emergenza. L’attuale sistema elettorale è stato consacrato dai due rami del Parlamento

Stallo politico

Meglio evitare il rischio di cambiare il modo di votare per impedire l’eventualit­à che qualcuno sia messo in condizione di governare

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