La vicenda
Tra il 1930 e il 1945, l’esercito giapponese ha costretto circa 200 mila donne asiatiche a prostituirsi per i militari imperiali (in alto a sinistra, un soldato giapponese con quattro «donne di conforto» coreane)
Dopo la guerra, Seul ha chiesto per anni le scuse ufficiali di Tokyo e un risarcimento (foto a destra, ex donne di conforto coreane) sulla diplomazia di Tokyo, restia a gesti di contrizione «ufficiali». Le circa duecentomila giovani strappate alle loro famiglie, furono costrette, a partire dagli anni Trenta fino alla conclusione della Seconda guerra mondiale, a diventare vere e proprie schiave sessuali dei soldati giapponesi, subendo stupri e sevizie per anni. Gran parte di queste disperate, una volta tornate a casa, dovettero anche affrontare l’onta e l’umiliazione di una società conservatrice. Più di un premier giapponese, negli anni, provò a esprimere «rimorso» per quanto accaduto. Ma mai con parole chiare e con l’impegno economico del governo, ragion per cui la controparte aveva sempre respinto i messaggi al mittente.
Oggi in Corea del Sud sopravvivono soltanto 46 di queste sfortunate donne, tutte ultraottantenni. Era importante, ha fatto notare Park Geun-hye, arrivare a un’intesa prima che l’ultima testimone «lasciasse questo mondo: soltanto nel 2015 abbiamo dato l’addio a nove di loro». Il primo ministro giapponese Shinzo Abe si è premurato di telefonare direttamente alla signora Park, per reiterare le scuse formali consegnate in forma di lettera dal suo ministro degli Esteri. La presidente sudcoreana ha risposto esprimendo la speranza che le due nazioni saranno «finalmente capaci di costruire un clima di fiducia e aprire una nuova era nei rapporti reciproci».
E loro, le protagoniste (involontarie) di questa triste vicenda? Alcune ex donne di conforto hanno criticato un’intesa sulla quale «non abbiamo avuto voce». Altre l’hanno accolta con favore. «È una cosa giusta, normale accordare una compensazione quando si commette un crimine», ha dichiarato all’agenzia Yonhap Lee Yong-su, 88 anni e nessun sorriso.
@PaoloSalom