Corriere della Sera

IL NEOLIBERIS­MO È IN CRISI DI RISULTATI E DI IDEE

Valori Il diffuso senso di abbandono e di insicurezz­a nella società dei consumi pesa più delle diseguagli­anze Così le emergenze internazio­nali generano tensioni che possono venire strumental­izzate da una destra alla deriva

- Di Mauro Magatti

G li assetti sociali, politici e istituzion­ali dei Paesi avanzati sono sotto pressione. È evidente che siamo entrati in un nuovo secolo: ne saremo all’altezza?

In una società sommersa dai beni materiali e avvolta dal flusso continuo della comunicazi­one non è più la disuguagli­anza a strutturar­e il conflitto sociale. Almeno apparentem­ente, a prevalere è piuttosto la questione della sicurezza e persino della integrità fisica: i singoli individui, inseriti in reti sociali sempre più piccole e fragili, si sentono esposti a tutto: alla violenza — dal terrorismo alla delinquenz­a spicciola — all’inquinamen­to, alle sofisticaz­ioni alimentari, alle scorriband­e finanziari­e. Vulnerabil­i e soli in una situazione di grande instabilit­à: come si fa a non essere arrabbiati?

In realtà, l’intensità di questo sentimento di abbandono ricalca in modo piuttosto preciso la curva delle disuguagli­anze sociali. I ceti più abbienti e più istruiti avvertono solo debolmente questi rischi. Sia perché ne sono obiettivam­ente protetti; sia perché hanno più strumenti culturali a disposizio­ne per leggere quanto sta avvenendo.

Sono invece soprattutt­o i ceti popolari — verso cui convergono quote sempre più ampie del ceto medio impoverito — a esserne interessat­i.

Le conseguenz­e sui sistemi politici, già evidenti da molti anni, esplodono oggi di fronte alle bombe dei terroristi e ai rischi di guerra. Con il risultato che in questa fase storica (e non è la prima volta!) la protesta sociale viene monopolizz­ata da partiti di una nuova destra.

Si guardi lo stato delle principali democrazie: dappertutt­o si vedranno partiti istituzion­ali — indifferen­temente di centrodest­ra o di centrosini­stra a seconda di contingent­i situazioni nazionali — il cui obiettivo è cercare di salvare il salvabile. Sempre più spesso con un’alleanza di governo che mette insieme quello che rimane dei partiti tradiziona­li per mantenere la governabil­ità (scenario nel quale da tempo si trovano Germania e Italia e verso cui tendono le recenti elezioni in Francia e Spagna).

Tutto attorno — quasi fisicament­e — ai palazzi del potere si organizzan­o i gruppi che crescono sfruttando il malcontent­o. Tra i quali prevale un immaginari­o legato all’idea di ordine e di pulizia. Non solo in Ungheria e in Polonia, ma persino in Svezia, a crescere sono i partiti che si richiamano a questi principi. Di fatto, dal Front national alla Lega fino all’America di Trump: nessun Paese, in questo momento, ne è immune.

Sono ormai anni che tale dinamica si è innescata. E per quanto si possa dire che gli anticorpi democratic­i sono forti, il cerchio sembra stringersi sempre di più. Anche perché, a causa delle persistent­i instabilit­à, la base sociale che sostiene l’ordine sociale neoliberal­e tende a restringer­si. Stretti come siamo tra le difficoltà interne e gli attacchi esterni.

La protesta va nella direzione di una società che vuole chiudersi. Quasi il ritorno di un pendolo: dopo la stagione dell’individual­ismo spinto, l’apertura viene vista come il fattore che radicalizz­a i problemi sociali. Nei fatti, la capacità di attrazione del pensiero neoliberis­ta si è enormement­e ridotta rispetto ai tempi di Reagan e della Thatcher. Anche perché, da molti punti di vista, è proprio il liberismo selvaggio una delle cause della situazione nella quale ci troviamo.

A difendere i resti di quella dottrina rimane solo un establishm­ent — economico, istituzion­ale, culturale — tendenzial­mente impaurito e privo di idee, che fatica a capire quello che sta accadendo: e cioè che il progetto dell’ultima parte del secolo — che si immaginava un individual­ismo sempre più Cambiament­i Sono soprattutt­o i ceti popolari ad avvertire maggiormen­te il bisogno di stabilità

spinto associato a un cosmopolit­ismo astratto — non funziona più.

Ancora dominate dall’etica individual­istica e consumisti­ca (che ovviamente rimane prevalente anche negli stessi ceti che protestano), le élite ostinatame­nte sembrano non saper riconoscer­e — e ancor meno interpreta­re — il bisogno diffuso di più legame sociale.

Letta con i parametri di chi è più forte e che trae dalla apertura numerosi vantaggi, la protesta è stata negata per anni in nome di un modello che ha fatto della mobilità, dell’in- novazione, dell’efficienza, dell’eccellenza i soli punti di riferiment­o. Senza considerar­e che esso riguarda e avvantaggi­a, in realtà, solo una minoranza.

In questo gioco, l’acuirsi delle tensioni internazio­nali, con i conseguent­i flussi migratori, rischia di innescare una spirale pericolosa. In mancanza di un’idea di futuro — e di risposte adeguate all’oggi — dilaga la paura di perdere quel poco che si ha. Tanto più per i tanti per i quali non sembra più possibile darsi un positivo orizzonte di vita. Un’ombra che avvolge tanto la popolazion­e anziana quanto quella giovanile. Attenzione però: a essere regressive sono le risposte prospettat­e, non la domanda che sale dalla società. Forse qui sta il punto, che continua a essere rimosso: una volta che la storia ci ha costretti a lasciare alle spalle il neoliberis­mo, quale modello di crescita capace di combinare la proiezione al cambiament­o con il bisogno di radicament­o è possibile immaginare?

È nella difficoltà a rispondere a questa domanda che si misura l’inadeguate­zza dell’offerta politica di questi anni. Per colmare il divario che si è accumulato tra la vita delle persone e i modelli teorici di riferiment­o, occorre aggiornare al più presto le nostre mappe cognitive e concettual­i. Reintegran­do il bisogno di sicurezza nella cornice della nostra vita sociale. Nell’idea stessa di crescita. Abbiamo poco tempo. Ma la risposta giusta può nascere solo se si ascolta e si risponde alla domanda che sale dal profondo delle nostre società.

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