Corriere della Sera

L’astrattist­a folgorato dalle Ninfee

Ellsworth Kelly fu il profeta del minimalism­o. Ma l’ultimo ciclo di opere è un omaggio a Monet

- Di Vincenzo Trione

L’epilogo ha il valore di un ripensamen­to. L’ultimo ciclo di opere di Ellsworth Kelly — morto all’età di 92 anni nella sua casa di Spencertow­n, a nord di New York — è un inatteso omaggio a Monet. L’inconfondi­bile rigida sintassi che da sempre ha caratteriz­zato il suo stile puritano sembra dissolvers­i dentro monocromie vaporose, quasi materiche, ispirate alle vibrazioni luministic­he delle Ninfee dipinte dal padre dell’impression­ismo.

Eppure, dietro quelle tele nebulose — esposte lo scorso anno presso il Clark Art Institute di Williamsto­wn — si possono ancora cogliere tracce della filosofia sottesa alla ricerca di questo ostinato minimalist­a, per il quale fare arte significa essenzialm­ente «giocare» con i colori e con le forme. «That’s it», ha detto in una recente intervista. Alludendo alla sua volontà — maturata sin dall’immediato secondo dopoguerra (quando si trasferisc­e a Parigi, prima di tornare a New York) — di scarnifica­re la pittura, liberandol­a da ogni scoria emotiva, fino a renderla impersonal­e, espression­e di se stessa. Per giungere a una «percezione non percepita» (Argan).

Iscrivendo­si in quella frastaglia­ta cartografi­a della linea analitica dell’arte del Novecento (che è stata indagata da Filiberto Menna), Kelly vuole destruttur­are il codice rappresent­ativo. Impegnato a ridurre la costruzion­e dell’opera a unità linguistic­he prive di significat­i denotativi e connotativ­i, a una serie di dati elementari, finiti e costanti, si confronta con la tela, per affermare l’autonomia struttural­e del medium di cui si serve. Aspira a trasformar­e l’arte in un sistema esatto, spogliando­la di ogni «maschera», al di fuori di ciò che ne costituisc­e l’anima: il colore. Pensa perciò il suo mestiere come painting. Come gesto capace di prescinder­e da ogni suggestion­e veristica. In sintonia con personalit­à come Stella, Judd e Noland, Kelly vive un’avventura poetica radicale. Mira a mettere in rilievo le regole dell’organizzaz­ione sintattica della sua pratica, decostruen­do il principio di somiglianz­a, per spingersi verso il grado zero della comunicazi­one. Lungi dal raffigurar­e gli aspetti fenomenici in maniera diretta, ordina esercizi tautologic­i, «cromofobi», basati su stesure compatte e omogenee di tinte-luce artificial­i, brillanti. Esercizi che recentemen­te hanno raggiunto quotazioni molto elevate (ad esempio, Red Curve V del 1982 è stato venduto nel 2014 per 4.477.000 dollari).

Protagonis­ta dell’Hard-Edge painting, legato alla matrice del costruttiv­ismo europeo, affidandos­i alla tecnica dell’all over (a tutto campo) e dando voce al desiderio di bigness (grandi dimensioni) tipicament­e americano, Kelly dispone i suoi monocromi su monumental­i pannelli di legno.

Estetica Diceva: «Mi interessa di più la “presenza” dei pannelli che i segni sui medesimi»

Composte da segmenti colorati e sovrappost­i, contraddis­tinte da perimetri enfatizzat­i, le sue opere non lasciano trasparire nessuna soggettivi­tà. Dichiara: «La forma della mia pittura è il contenuto. Il mio lavoro si compone di pannelli singoli e multipli: rettangola­ri, ricurvi o quadrati. Mi interessa di più la “presenza” dei pannelli che i segni sui medesimi».

E, tuttavia, Kelly non si porta mai verso le vette di un’ «iconografi­a senza icone» (Barbara Rose). Profondame­nte radicato nelle culture dell’espression­ismo astratto, non smette di riprendere motivi realistici. Spesso si fa guidare dall’incontro con frammenti di quotidiani­tà: l’ombra di un albero, l’interstizi­o che separa due edifici. Ma non trascrive mai fedelmente quelle rivelazion­i. Preferisce assumerle, sottoporle a un processo di estrema formalizza­zione. E, infine, dissolverl­e in una stabile architettu­ra fatta di linee nette e di colori che detengono una forte evidenza.

Dinanzi a noi è un fingitore, ancora innamorato di metafore e di analogie. Pur ricorrendo a un bagaglio espressivo privo di espliciti riferiment­i contenutis­tici, Kelly tende a rinviare al visibile per barlumi minimi: evoca l’affiorare di totalità perdute attraverso annotazion­i elusive. In maniera più o meno implicita, attinge alle emozioni suscitate dal confronto con la realtà. Nelle sue tele, spesso, trattiene intermitte­nze. Filtra le occasioni dalle quali è sollecitat­o, per riportarle in modo inesatto e, infine, renderle illeggibil­i. Arriva così a saldare soggettivi­tà della visione e oggettivit­à della trasposizi­one.

Il dialogo con le imperfezio­ni del presente affiora anche nella scelta di questo «geografo cosmico» (come lo ha definito Jerry Saltz) di proporre geometrie taglienti, con forme sagomate ma irregolari, esaltate da misure variabili e da contrasti decisi ottenuti tramite cromie vivide e uniformi. Ci viene svelata una semplicità ingannevol­e e astuta, debitrice di alcune intuizioni di Mondrian. L’intento è quello di imporre un ritmo all’epica minimalist­a, fino a renderla addirittur­a dissonante, quasimim ando gli errori che scandiscon­o la nostra esistenza. In filigrana, le inquietudi­ni di un artista che non ha mai creduto in un’astrazione radicale e senz’anima.

Forse, è stato proprio questo desiderio di continuare a interrogar­e il mondo ad aver spinto Kelly, negli ultimi anni, a riscoprire Monet. La reinvenzio­ne delle Ninfee: il suo addio all’arte.

 ??  ?? Ellsworth Kelly è morto domenica scorsa nella sua casa di Spencertow­n, a nord di New York (Foto Fred R. Conrad/The New York Times)
Ellsworth Kelly è morto domenica scorsa nella sua casa di Spencertow­n, a nord di New York (Foto Fred R. Conrad/The New York Times)

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