In Rai vince la sperimentazione con la fiction «Tutto può succedere»
Ogni tentativo di sperimentazione e innovazione nel panorama della fiction italiana va salutato con favore e osservato con attenzione: dopo anni di immobilismo e appiattimento sull’agiografia, il fatto che anche le produzioni del servizio pubblico provino a ispirarsi ai modelli più raffinati e complessi in circolazione, cioè quelli americani, è senz’altro un buon segnale.
È il caso di «Tutto può succedere», la nuova fiction di Rai1 scritta da Filippo Gravino, Guido Iuculano, Michele Pellegrini, con la regia principale di Lucio Pellegrini (domenica, 21.10). La fiction è una sorta di remake italiano di un intenso telefilm Usa, «Parenthood», un racconto profondo ed emotivo sui ruoli di genitori e figli nelle diverse fasi della vita, seguendo diverse generazioni (tra i protagonisti principali c’erano Peter Krause e Lauren Graham).
Misurarsi con un modello del genere non era facile: la serie originale è un piccolo gioiello, sia dal punto di vista del tono con cui racconta le vicende della famiglia Braverman (i piccoli e grandi dilemmi sono affrontati con il sapere delle favole e non con le prediche degli psicologi), sia dal punto di vista dello stile, con dialoghi disordinati e sovrapposti per catturare la spontaneità del parlato, con un uso creativo e raffinato della musica. L’adattamento italiano, che nelle prime due puntate è sembrato molto aderente a situazioni e dialoghi, è una produzione molto accurata, si vede che Cattleya ha investito nel progetto, con un cast «cinematografico» a comporre la famiglia Ferraro (Pietro Sermonti, Licia Maglietta, Maya Sansa), uno stile visivo sopra la media, delle partecipazioni musicali interessanti, da Raphael Gualazzi ai Negramaro.
Vista senza considerare il modello originale, «Tutto può succedere» è senz’altro una fiction sopra gli standard medi italiani. Certo, il confronto con la versione Usa pesa, soprattutto dal punto di vista della recitazione.