Corriere della Sera

Dickens, il vizio del lieto fine

Rivisitazi­oni «Dombey e figlio» fu un grande successo a puntate: foltissimo, intricatis­simo, colmo di risa e lacrime Il dramma di un ricco e arido commercian­te travolto dalla morte del figlio, si stempera nella vitalità del mondo esterno

- Di Pietro Citati

All’inizio del 1846, Charles Dickens firmò un contratto con l’editore Bradbury e Evans per un libro di cui sapeva pochissimo: sapeva soltanto che sarebbe apparso, via via che lo scriveva, in venti puntate di una lunghezza invariabil­e. Il tema sarebbe stato l’orgoglio. In primavera, affittò la casa di Londra e partì con la moglie Kate, la cognata Georgine, i sei figli (l’ultimo di sette mesi), tre domestiche e il cane Timber. Si imbarcò per Ostenda: discese il Reno fino a Strasburgo: prese il treno per Basilea e di lì, in carrozza, raggiunse Losanna. Qualche giorno più tardi, ricevette il suo scrittoio, e le statuette di bronzo che vigilavano sul suo lavoro; e scrisse al grande amico John Forster: «COMINCIATO DOMBEY!». Aveva trentaquat­tro anni, e un grande passato di romanziere. Forse Dombey e figlio sarebbe stato il suo capolavoro: un romanzo foltissimo, intricatis­simo, colmo di risa e lacrime, come egli amava, e come noi ci aspettiamo ogni volta da lui.

Il libro si rivelò difficile, forse il più difficile tra i suoi libri. Doveva seguire moltissime strade, ramificazi­oni, meandri: tutti quelli che la sua fertile fantasia gli imponeva, a costo di perdersi; molti personaggi si precisavan­o e si trasformav­ano per strada. «Non potete immaginare — diceva — la mia infinita fatica, o quale straordina­ria difficoltà provo, ad avanzare SVELTO… La pena, la fatica di scrivere, giorno dopo giorno, senza una lanterna magica, è IMMENSA. I miei personaggi sembrano inclini alla stagnazion­e, quando non sono circondati da folle». Per scrivere, aveva bisogno di una grande città intorno a lui: centinaia di strade, che lo circondava­no il giorno, e che percorreva febbrilmen­te la notte.

Nel novembre 1846 salì di nuovo in carrozza: si arrestò alla porta dell’Hôtel Brighton, a Parigi, e poi a rue de Courcelles 48. Aveva un appartamen­to intermedio tra una casa di bambole, l’Ade, e una casa di fantasmi con una pendola ferma. Raggiunse la sua vera meta: fece una «colossale» peregrinaz­ione notturna, che ripeté il giorno dopo, perdendosi cinquanta volte nel labirinto della Parigi di Luigi Filippo. Si sentiva a casa sua: parlava bene il francese, sebbene con un forte accento inglese: conosceva Louis Blanc, Michelet, Quinet, Dumas, Eugène Sue, Gautier, Alphonse Karr, Lamartine, Scribe. A rue du Bac visitò Chateaubri­and vecchio e malato: terminò la giornata a casa di Victor Hugo, che lo ricevette «con una cortesia e una grazia infinita». Visitò le prigioni (come sempre, dovunque andasse), gli ospedali e soprattutt­o la Morgue.

Dombey e figlio ebbe un grande successo: ogni puntata era attesa con fervore e commozione; le vendite superavano le trentamila copie. Una lettrice scrisse: «Credevo che ci volessero tre o quattro persone per mettere insieme Dombey ». Nei primi di gennaio 1847, dopo un lavoro accanito il giorno e la notte, Paul, il figlio bambino di Mr. Dombey, morì. Dickens scrisse a un’amica: «Paul se ne è andato venerdì sera verso le dieci, e siccome non avevo più speranza di dormire, sono uscito e ho camminato per le strade di Parigi fino all’ora della colazione l’indomani mattina».

Ritornò a Londra, al capezzale di un figlio malato, e poi tornò a Parigi e di nuovo tornò a Londra, dove continuò a scrivere il libro durante l’anno 1847 e il primo trimestre del 1848. «Viva la Rivoluzion­e! Viva il Popolo! Basta con i re», esclamò quando fu informato dello scoppio della rivoluzion­e a Parigi. La conclusion­e del libro fu ardua. L’interesse si era spostato su Florence, la figlia di Mr. Dombey. «Questo capitolo mi è costato terribilme­nte. La testa mi fa ancora male (scrivo all’una del mattino)». Come sempre, sebbene il suo cuore fosse occupato dal romanzo, Dickens aveva seguito moltissime strade: un racconto di Natale, la rappresent­azione di un testo di Ben Jonson, una conferenza a Leeds sulla educazione delle masse, l’organizzaz­ione di un focolare di ragazze perdute. Nel marzo 1848, la grande esplosione di estro e di genio si era esaurita: Dickens doveva soltanto decidere la sorte di Diogene, il vecchio cane.

Il personaggi­o principale del romanzo è Mr. Dombey. È alto, grosso, corposo, solenne: indossa un abito blu, una rigida cravatta bianca, un paio di scarpe scricchiol­anti, ed è incapace di piegare e di sciogliere la propria durezza. Col passare degli anni, le radici del suo orgoglio si estendono e si nutrono di tutto quello che le circonda. Non ha amici, perché non ne ha bisogno. Ha un figlio, che ama con passione e tenerezza; e che, per lui, è l’incarnazio­ne e il prolungame­nto della sua ditta, la Dombey e figli, che fa commerci con tutto il mondo visibile.

La casa di Dombey è grande ma senza sole: le finestre contemplan­o severament­e i cortili e gettano loro degli sguardi torvi. La conosciamo bene nel corso di una festa: le stanze sono tenebrose e glaciali: sembrano portare il lutto coloro che le abitano; i libri, di un formato identico e disposti come soldati nelle loro uniformi fredde, dure e lucenti, partecipan­o all’abbassamen­to della temperatur­a. I cibi gelati della cena fanno male ai denti: il vino è così terribilme­nte freddo, che strappa ai commensali un piccolo grido; il vitello arriva da un’anticamera così gelida che, al primo morso, una sensazione di piombo freddo si diffonde nelle membra di tutti.

In questo mondo gelido e tenebroso, non ci sono sentimenti: o vengono subito soffocati; l’unico che resiste è l’orgoglioso desiderio di possesso, e il senso dello sforzo necessario per conquistar­e questo possesso. Il denaro sembra fratello della morte. La moglie di Dombey muore nelle prime pagine del libro, mentre nella stanza si ode soltanto il forte tictac dell’orologio del signor Dombey e di quello del dottore, che sembrano fare una corsa nel silenzio. Non c’è amore. C’è amore soltanto nel cuore della figlia, Florence, che soffre nella solitudine, piange, intenerisc­e tutte le cose e le persone che la circondano, ama il padre e non ne è riamata.

Intanto il figlio, Paul, cresce: cresce, ma ha un modo strano e vecchiotto di restare seduto a meditare. Ama restare solo: percorre, solo, i piani e le stanze della casa; rimanendo seduto sui gradini, ascoltando il grande orologio del vestibolo e trovando un senso segreto nei disegni della tappezzeri­a. Prova accessi di me-

Abitudini Per scrivere aveva bisogno di una città intorno: centinaia di strade che lo circondava­no di giorno e che percorreva febbrilmen­te di notte

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